Un gelato e 80 anni senza guerra
La riflessione di Giuseppe Geneletti sugli 80 anni passati dal nostro Paese senza guerra. Dai racconti di quelle intorno a noi al pacifismo fragile e quasi inconsapevole che ci caratterizza

In Italia non si registrano più conflitti armati interni o guerre dirette sul proprio territorio dal 30 aprile 1945, giorno della cosiddetta “battaglia di Monte Casale” a Ponti sul Mincio, che è considerata l’ultima vera battaglia combattuta sul suolo italiano. Oggi, siamo nel 2025, per cui, sono passati 80 anni da allora.
Dal punto di vista storico, mai nella storia della penisola italiana c’è stato un periodo di pace così lungo, diffuso e stabile come quello vissuto dal 1945 ad oggi. Anche nei periodi di relativa tranquillità, in passato, ci sono sempre stati conflitti locali, invasioni straniere o tensioni armate. Non era mai accaduto prima: non nell’età romana, non nel Medioevo frammentato dai comuni e dalle signorie in lotta, non nel Rinascimento assediato dalle potenze europee, e nemmeno nei secoli moderni, funestati da guerre d’indipendenza, colonialismi e due guerre mondiali. Mai come oggi, tre generazioni consecutive sono cresciute senza dover temere di essere arruolate, deportate, bombardate.
Questa lunga pace è un risultato senza precedenti nella nostra storia: un’eredità spesso data per scontata, ma che ha permesso lo sviluppo civile, economico e sociale del Paese.
Ma cosa comporta psicologicamente una pace così lunga? La prima conseguenza è una sorta di distanza strutturale dalla guerra. Nella coscienza collettiva, la guerra è diventata un’astrazione: qualcosa che si studia sui libri, si vede nei film, o si scorre distrattamente tra le notizie di un telegiornale. Nessuno, nella quotidianità italiana, ha la guerra nella propria memoria diretta, se non i più anziani. I racconti dei nonni sono diventati sempre più rari, spesso filtrati dalla nostalgia o dal silenzio. Così si sviluppa una specie di illusione: quella che a noi non potrà mai succedere, che la guerra sia un errore del passato o un problema degli altri.
Allora, raccontiamo.
Il giovedì sera, quasi sempre, lo passo con mia mamma. Vive da sola a Milano, ci vive dal 1964, anche se è nata a Osio Sotto nel 1936. Ogni volta che la incontro, c’è un pezzo di racconto che si aggiunge. Parliamo del mio lavoro, della famiglia, della sua vita. Ma più che parlare, lei ricorda. E ogni suo ricordo apre mondi.
Questa settimana stavamo mangiando un gelato. Io limone e liquirizia, lei amarena e nocciola. Così, non per caso, le ho chiesto: “Mamma, ma quali erano i gusti di gelato preferiti di papà?” Lei ha smesso di mangiare, mi ha guardata come se avessi chiesto una cosa fuori dal tempo e mi ha risposto secca: “Gelato? Ma quale gelato. Noi il gelato non lo mangiavamo mai”. Una frase come un sassolino lanciato in uno stagno fermo. Cerchi concentrici si sono mossi nel suo sguardo, e all’improvviso siamo tornati molto indietro.
Mi ha raccontato di quando era piccolissima e, durante la guerra, venne mandata lontano da Milano, come tanti altri bambini. Non si chiamava ancora “sfollamento”, ma era quello: mandar via i figli, per salvarli. Finì a Rogoredo sopra Morbegno, in Valtellina, con suo fratello. Tre mesi, minuscoli entrambi, affidati a una conoscente dei Geneletti, una famiglia di amici che, ironia della sorte, sarebbero poi diventati i suoi suoceri. Ma quella parente era troppo indaffarata, e così li affidarono a un’altra donna, anziana, che russava sempre e restava a letto tutto il giorno. Mia madre dormiva su un lettino ai piedi del suo, senza acqua corrente, lavandosi a un ruscello. Tornarono a Milano alla fine dell’estate con la rogna, e mia nonna giurò che in Valtellina non li avrebbe mai più mandati.
E poi, altri frammenti. Le S.S. che irrompono nel bar di famiglia in via Luciano Manara, a due passi dal Palazzo di Giustizia. Una partigiana nascosta in soffitta. La paura che blocca il corpo di nonna Elisa, fino a dover subire un’operazione allo stomaco. Le leggende si intrecciano alla memoria viva, come sempre accade nei racconti familiari. Il nonno Peppino, spedito in Russia con scarponi di cartone, che sopravvive per miracolo e poi emigra in Eritrea con tutta la famiglia. Viene catturato dagli inglesi e solo nonna Savina, con uno stratagemma degno di un film, riesce a liberarlo. Un altro tempo. Un altro mondo. Eppure, mia madre lo racconta come fosse ieri.
Alla fine, sospira e dice con una calma lucida: “La guerra è brutta, bruttissima. Non si deve mai fare. Mai. Sono sempre i maschi che la scelgono. Se il mondo fosse governato dalle donne, certe cose non succederebbero”. Lei, figlia di una donna che comandava come un generale in famiglia, sogna ancora un mondo diverso.
E mentre ascoltavo, sul mio telefono è arrivata una fotografia. Una mia cara amica mi ha mandato un’immagine con scritto: “Iran, 2014” (foto di copertina). Mi scrive che sta soffrendo molto, oggi, a riguardarla. Pensa agli sguardi, ai volti, alla vita che aveva incontrato a Teheran. Oggi, tutto le appare più doloroso. E io, tra una cucchiaiata di liquirizia e un pezzo di memoria che si fa storia, sento quanto la guerra non sia mai altrove.
Oggi “vediamo” la guerra: attraverso uno schermo. Le guerre degli altri, in Ucraina, a Gaza, in Sudan, ci arrivano sotto forma di immagini iper-mediate, commenti, statistiche, brevi video scioccanti. A volte ci indignano, ci commuovono, ma il più delle volte generano un cortocircuito: o ci desensibilizzano, come se la guerra fosse una routine lontana, oppure ci destabilizzano, provocando una sensazione di impotenza, di minaccia globale che però non si traduce in azione. Nei più giovani, abituati a vivere in un mondo che parla di pace, diritti e inclusione, la guerra risulta spesso inaccettabile proprio sul piano morale, eppure difficilissima da interpretare.
Cresciuti nella pace, siamo diventati pacifisti quasi per inerzia. Non conosciamo più il linguaggio della difesa, il valore del sacrificio collettivo, il significato della resistenza armata. Il servizio militare è stato abolito, la divisa è diventata quasi invisibile, il dibattito su difesa e sicurezza viene spesso lasciato alle istituzioni senza un reale coinvolgimento dell’opinione pubblica. E così accade che, davanti a un eventuale scenario di conflitto, non sappiamo bene come reagire: rifiutiamo la guerra, ma non siamo pronti a difenderci. Ci siamo dimenticati che la pace non è l’assenza di guerra, ma la presenza di giustizia, equilibrio e capacità di prevenzione.
C’è un rischio, in tutto questo, che potremmo chiamare pacifismo fragile. Un pacifismo che nasce più dalla fortuna storica che da una consapevolezza profonda. Un pacifismo che rischia di sciogliersi al primo shock, proprio perché non ha mai dovuto fare i conti con l’orrore reale della guerra, né con le scelte morali che essa impone. Eppure, proprio per questo, oggi è il momento di ripensare la cultura della pace non come assenza, ma come capacità attiva: di comprensione, di responsabilità, di difesa intelligente. Non si tratta di prepararsi a combattere, ma di tornare a pensare criticamente la guerra, per evitarla davvero. Perché la guerra può sempre tornare, anche quando non ce l’aspettiamo. E la pace, se vogliamo conservarla, va coltivata con lucidità, non con rimozione.
“La forza disumanizza, chi la subisce e chi la esercita. Trasforma l’uomo in cosa”, Simone Weil.
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