Florina ricorda Ion Cazacu: “Mio padre, bruciato vivo, non ha avuto giustizia”

Sono passati 15 anni dall'omicidio di Ion, piastrellista rumeno aggredito a Gallarate dal suo datore di lavoro. Le figlie oggi vivono in città: mercoledì Florina presenta in anteprima nazionale il libro scritto con Dario Fo

Gallarate

Incontriamo Florina Cazacu in un baretto di quartiere di Gallarate. È vicino alle scuole del rione e nel primo pomeriggio di un venerdì qualsiasi ci sono tante mamme che attendono l’uscita  dei loro bambini dalle aule. Florina ripercorre la storia di suo padre, Ion Cazacu, bruciato vivo 15 anni fa dal suo datore di lavoro: un lungo dialogo su quel fatto, sul processo, sulla decisione (sua e della sorella) di stabilirsi proprio nella città dove era arrivato suo padre a fine anni Novanta e dove oggi vivono la loro vita quotidiana. «Tanta gente collega Gallarate a questo fatto, possiamo invece dimostrare che Gallarate può essere ricordata per altro» spiega Florina. image2«Non è più solo la città dove mio padre era sfruttato ed è morto, ma è diventata anche la città mia e di mia figlia. Per me è un modo autentico per riscattare in pieno l’immagine della città». Ci mostra un pacchetto di foto: un compleanno in famiglia, Ion durante una gita sulle montagne vicino alla città dove spesso andava a camminare. La foto a colori stampata forse in Italia, una delle ultime.

Florina Cazacu e Dario Fo presenteranno in anteprima a Gallarate, mercoledì 13 maggio, il libro “Un uomo bruciato vivo- storia di Ion Cazacu”, al Teatro del Popolo alle 17,30, in collaborazione con Fillea Cgil.

Il racconto inizia con l’arrivo di Ion in Italia (non era alla sua prima esperienza di lavoro all’estero). «Mio padre era venuto in Italia nel 1997. Era tornato a casa nel dicembre del 1999. Abbiamo fatto quel Natale e Capodanno insieme, poi è rientrato a metà gennaio».

Tre mesi dopo Ion è stato aggredito: come avete saputo di quel che era successo?
ion-cazacu-gallarate«Lui chiamava sempre la domenica, ci aveva chiamato anche la domenica prima. E’ avvenuto un martedì sera, noi l’abbiamo saputo solo venerdì: al 17 di marzo, alle 5 del mattino, bussava disperata alla nostra porta la moglie di un suo compagno di lavoro. Ha detto a mia mamma di aspettare una chiamata che riguardava mio padre, ma avrebbe chiamato suo marito, non mio padre. Ci ha parlato di uno screzio con il datore di lavoro, ma abbiamo capito che c’era qualcosa di più, che gli era successo qualcosa. Noi siamo andate a scuola quel giorno, io ero in terza e mia sorella in prima liceo. All’uscita abbiamo visto mia mamma e suo fratello, che abitava a 150 chilometri di distanza: erano entrambi in lacrime».

Siete andati subito in Italia?
«L’unica possibilità per andare in Italia e raggiungerlo era informare i mass media, perché allora in Italia senza visto non si entrava. In auto, al ritorno da scuola, ci hanno detto di un incidente, che era scoppiata una caldaia. Una volta a casa volevamo accendere la tv, ma in un modo o nell’altro ce lo impedivano. Suonavano in continuazione alla nostra porta, ma non riuscivamo a vedere cosa c’era. Alla fine ho chiesto a a mia mamma di dirmi tutta la verità. Mi ha detto che papà era rimasto vittima della follia assassina del suo datore di lavoro, Iannece. Lo conoscevamo bene. Mio padre ci aveva parlato ogni tanto di lui, ce ne parlava sempre bene. A Natale ci aveva portato regalini e un panettone.  La caldaia l’avevo accettata. Ma quando ho capito che era vittima di un’altra persona, mi è crollato il mondo addosso, non lo potevo accettare. Mio padre ci ha sempre raccontato l’Italia come un paese meraviglioso, democratico, dove erano garantiti i diritti e il lavoro».

Per lui, non era così.
«Io ho scoperto solo dopo che Iannece era un violento, che altre due persone erano già state sue vittime, per fortuna con conseguenze meno gravi. E’ con la morte di mio padre che ho scoperto che in Italia era sfruttato. Lavoravano 15/18 ore al giorno, non veniva pagato dall’inizio di gennaio. Non aveva mai detto che abitava in un bilocale di 40 metri quadrati con altre 11 persone oltre lui, dodici in totale. Non ho mai cambiato idea sull’Italia, non voglio confondere un pazzo assassino con un Paese intero».

Quando siete venute in Italia, per il processo?
«Nel 2001 sono venuta a Veniano (provincia di Como, dove era stata organizzata una cerimonia per Ion, ndr) e ho conosciuto Dario Fo. image6Dal 2002, maggiorenne, sono venuta qui per seguire il processo, da studentessa di giurisprudenza. Era, come dire, un momento di gloria perché credevo fermamente nella frase che è scritta nelle Aule: “la legge è uguale per tutti”. Ma l’esperienza è stata negativa, tremenda. Tutto quello che io immaginavo, si è rivelato il contrario: dalle parole dette in Aula dalla Difesa di Iannece, mio padre da vittima in quell’Aula quasi diventava un colpevole. Anche da garantista, non potevo accettarlo. Nel vedere il giudizio ridotto in appello da 30 a 16 anni, ho rivisto veramente morire mio padre per mano della giustizia. Sono crollati con quella sentenza tutti i miei principi di vita: ho giurato di non rimettere più piede in Università e in Tribunale. Mi sembrava una castello di sabbia spazzato via dalla marea».

Come sei arrivata a Gallarate, la città dove aveva vissuto tuo padre?
«Sono rimasta qui in Italia dopo il processo perché non ho avuto giustizia, ma avevo trovato tanta solidarietà, gente che ci vuole bene. Non sono venuta direttamente a Gallarate, l’approccio è stato graduale: prima abbiamo vissuto ad Appiano Gentile per due anni, poi a Cairate per altri due, infine nel 2008 a Gallarate. Avevo voglia di frequentare gli stessi posti che frequentava anche mio padre: tante volte percorrevo strade e marciapiedi, gli stessi che erano stati percorsi da lui. Mi aspettavo che venisse fuori da qualche vicolo, avevo la speranza di trovarmelo davanti. Mi pareva a volte di vederlo nella folla: mi facevo largo e all’ultimo capivo che era solo un’allucinazione. Ma non sono mai andata a vedere la casa dove è successa la tragedia, non ce l’ho fatta».

Quand’è nata l’idea del libro per raccontare la storia di suo padre?
florina«
Subito, appena uscita dall’Aula del Tribunale: volevo raccontare i fatti come sono stati, non ho mai accettato la versione dei fatti uscita dal processo. Tre anni fa – una sera – ho preso carta e penna. Avevo messo a letta mia figlia nata nel 2005: qella sera mi sono detta che era il momento giusto. Fu una notte disastrosa: gli avvenimenti mi venivano addosso come un treno in velocità. Per fare quello che non poteva più fare mio padre – raccontare – dovevo fare ordine, dividere gli eventi. Ma essendo solo io la triste protagonista della storia, sentivo di aver bisogno di una mano:  Dario Fo ci era stato vicino, conosceva tutti i dettagli della storia di mio padre. Una mattina mi sono fatta coraggio, ho alzato il telefono: ci siamo visti il giorno dopo, la settimana successiva c’erano già le prime pagine di quello che sarebbe diventato il libro». (nella foto: Florina durante una recente trasmissione televisiva)

Cosa ha significato per te il libro?
«Raccontare la verità e riscattare mio padre: in Italia era un fantasma, una persona senza documenti che non avrebbe mai potuto rovinare Iannece come invece sosteneva il legale durante il processo. Già nel 2010 Iannece girava nelle stesse strade  dove camminava mio padre e dove cammino io: avevo la voglia di svegliare le coscienze di chi ha l’obbligo istituzionale e morale di fare giustizia. Da madre, dovrei essere in grado a insegnare a mia figlia a denunciare un torto subito. Ma io non ci credo e non posso trasmettere un valore che ho perso. Ma senza giustizia, ci sarebbe la legge del far west, del più forte e io non voglio che mia figlia cresca in un mondo così.
Ho avuto un supporto psicologico mentre scrivevo, era un modo per scrutare la mia anima. Ho diviso per argomenti, archiviato le cose del passato per far posto alle cose belle del futuro».

In Italia e nella nostra città la storia di Ion Cazazu è ricordata da molti, anche se  solo da una parte dell’opinione pubblica. In Romania oggi è una vicenda nota?
«Dario Fo, andando da Daria Bignardi su La7, ha fatto molto parlare su questa vicenda. Il pezzo di intervista pubblicato anche su Varesenews è stato visto e citato da molti media in Romania. Molti hanno chiamato me, mia sorella e mia mamma, molti non sapevano neanche che stavo scrivendo il libro».

Sua mamma ha vissuto per un periodo in Italia: oggi dove vive?
«Mia mamma è tornata definitivamente in Romania due anni fa, la salma di mio padre è stata portata là e lei voleva prendersi cura di quel piccolo pezzo di terra in cui riposano oggi i suoi resti. Per tanto tempo abbiamo avuto sensi di colpa, poi ci siamo detti che non potevamo fare di più. Noi abbiamo perso questa battaglia, ma la vera sconfitta in tutto questo è la giustizia, non noi».

Qual è il ricordo più forte rimasto di suo padre?
«Mi ricordo le ultime feste che abbiamo fatto insieme. A Capodanno io dovevo uscire la notte con i miei amici, nel centro della città dove vivevamo si esibivano artisti famosi per noi ragazzi. Mio padre mi ha preso per mano, mi ha fatto sedere al tavolo: io volevo uscire e lui invece ha cominciato a dirmi i suoi desideri per il futuro. Io mi sono alza perché non ne capivo il senso, ho battuto il pugno sul tavolo come fossi in tribunale e ho detto: “udienza sospesa. fino a 50, 60 anni almeno”. Lui mi ha pregato di ascoltare le cose con cura. Mi ha detto molte cose che allora non avevo capito. Ma quelle stesse frasi me le sono ricordate tutte quattro mesi dopo al suo funerale».
Sono sempre stata legata più a mio padre, mentre mia sorella più a mia madre. A 17 anni vedi tuo padre come l’uomo perfetto».

Ion è stata la vittima che ha pagato per tutti, ma la sofferenza della vita da invisibile in Italia riguardava anche altri, quelli che dividevano con lui una casa di pochi metri quadri. Avete poi rivisto i suoi colleghi di lavoro? Dove sono oggi?
«I suoi compagni di lavoro sono sparsi per l’Italia. Alcuni sono tornati dalle loro famiglie dopo anni di lavoro. C’erano tutti al mio matrimonio nel 2005, c’erano tutti e mancava mio padre. È stato un momento di grande commozione, per tutti noi».

Roberto Morandi
roberto.morandi@varesenews.it

Fare giornalismo vuol dire raccontare i fatti, avere il coraggio di interpretarli, a volte anche cercare nel passato le radici di ciò che viviamo. È quello che provo a fare a VareseNews.

Pubblicato il 11 Maggio 2015
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