Via Francigena, 18esima tappa: da Montefiascone a Viterbo

Il racconto della 18esima tappa del viaggio sulla Via Francigena del direttore Marco Giovannelli

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Con i suoi ventisette metri di diametro, la cupola della basilica di Santa Margherita è una delle più grandi in Italia. La si può vedere bene da molti punti della Tuscia e la si distingue nettamente fino a Viterbo. Montefiascone ha avuto una storia importante tanto da diventare sede vescovile e diocesi. Oggi il paese, oltre ai chilometri di spiaggia sul lago di Bolsena, punta sul vino e sullo sviluppo della Via Francigena.

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“Noi per fortuna – mi raccontava ieri l’assessore alla cultura arenato Trapè – non abbiamo bisogno di ostelli perché tra i due monasteri delle Benedettine e del Divino amore e il vecchio convento dei cappuccini, avremmo oltre cinquecento posti letto. Dovremo pensare a progetti però perché vorrei incrementare l’occupazione sul nostro territorio e di opportunità ne abbiamo”.
Quando salgo verso la piazza principale e passo dalla basilica, malgrado l’ora presta, si capisce che sarà un’altra giornata caldissima. Resto a guardare ancora un po’ la forma imponente della chiesa e subito dopo lo stupore di fronte al panorama del lago mi coglie ancora.

La strada scende rapidamente e alla periferia del paese si lascia l’asfalto per entrare in una sterrata. La tappa di oggi è tutta fuori dalle vie di comunicazioni tradizionali. Bastano un paio di chilometri ancora per addentrarmi nella campagna e trovare il più bel capolavoro storico di questa zona. Ci sono abbondanti tratti di antico basolato romano. Calpestarlo dà una grande emozione perché quella strada venne costruita oltre duemila anni fa con immenso sacrifici.

I romani guardavano avanti e costruivano vere e proprie opere perché durassero. La tecnica viene descritta in più punti del tracciato della Via Francigena. Per prima cosa si collocavano i bordi, che davano la direzione della strada, poi si scavava il terreno all’interno, dove si metteva uno strato di pietre piuttosto grandi, che formavano le fondamenta della strada (statumen); al di sopra si faceva una gettata di malta mista a pietrisco (rudus), che veniva ben battuto, poi sopra si metteva un terzo strato (nucleus), di malta, sabbia e pozzolana nel quale si affondavano i basoli, che così incastrati non si muovevano e formavano un piancito durissimo (pavimentum). Una tecnica che ha permesso a chilometri di strade di arrivare ancora intatte fino ad oggi.

A metà percorso, oggi sono poco più di diciassette chilometri, incontro Bagnaccio. La sorpresa è che da qualche tempo queste pozze di acqua solfurea non sono più accessibili liberamente. Tutta l’area è recintata e per accedere occorre iscriversi all’associazione. Malgrado sapessi che per i pellegrini si usa riguardo, mi viene chiesto di pagare l’accesso per cinque euro. La mia intenzione, come per i miei amici, è solo quella di riposare, mangiar qualcosa e magari provare a mettere i piedi nell’acqua calda che può superare i 30 gradi. Rinunciamo. Peccato, ma non vale la pena pagare per star li mezz’ora. Da lì a Viterbo la strada è tutta sotto il sole, ma sono “appena” otto chilometri e si può fare.

Come per Siena entro in città da Porta Fiorentina. Ancora poca strada e ci salutiamo con Richard e Alberto. Stanotte io torno a dormire a casa da mia mamma. Loro sono invece all’ostello del pellegrino Pio VI alla Trinità. Un luogo che ha una grande storia perché li venne rinchiuso il papa quando fu rapito e portato in Francia. L’ostello è attivo da tre anni è solo nel 2014 sono passate a dormire mille persone provenienti da 49 diversi stati. Siamo molto vicini e questa sistemazione ci farà passare insieme la serata a casa mia.

Viterbo è una cittadina molto tranquilla. Verrebbe da dire troppo tranquilla. Ha sempre vissuto sulla forte presenza dei militari, sul l’agricoltura e sul terziario. Mi viene in mente una chiacchierata con Filippo Rossi, presidente del consiglio comunale e fondatore di Caffeina, una delle manifestazioni culturali più importanti della città. Lui dice che Viterbo è figlia della mentalità contadina e militare. Un mix che porta con se tradizione e conservazione. Una condizione che va di lusso a chi sta bene economicamente, ma che condanna la città a un immobilismo assoluto. E così Viterbo è la realtà delle occasioni perdute malgrado un potenziale straordinario. La sua terra è bellissima perché inserita tra il mare è la montagna, ha laghi ancora puliti, una storia antica con monumenti e arte unica al mondo. Basti pensare agli Etruschi, un popolo che ha segnato pezzi importanti dello sviluppo economico e sociale.

La Tuscia potrebbe vivere di turismo e invece fatica a trovare una sua forma di sviluppo. Per alcuni anni sembrava che fosse la presenza universitaria l’alternativa alla drastica riduzione del numero dei militari. Poi anche questa si è ridimensionata arrivando a chiudere esperienze notevoli come il corso di Beni culturali, primo e per lungo tempo unico in Italia. Viterbo è stata anche città dei papi, tanto da venir chiamata ancora oggi così. Qui, tra il 1268 e il 1271 si tenne in primo conclave e furono necessari ben 1006 giorni per eleggere papa Gregorio X. I viterbesi stufi delle lungaggini dapprima segregarono i cardinali, poi ridussero il cibo fino a scoperchiate il tetto di parte del palazzo papale.

La città è stata fortemente caratterizzata dalla presenza della Chiesa cattolica. Ne parlano tanti intellettuali e tra loro anche Andrea Camilleri in uno dei suoi ultimi romanzi storici. L’evento centrale per la città è il trasporto della “Macchina di Santa Rosa” che avviene sempre la sera del tre settembre. Cento facchini portano sulle spalle una torre costruita ad hoc con in cima la statua della santa. La processione parte da porta romana per arrivare alla basilica di Santa Rosa dopo aver attraversato le principali vie del centro. È una tradizione antica e a Viterbo il “capo facchino” è una istituzione pari quasi a quella del sindaco.

Ritroviamo così momenti popolari che hanno caratterizzato la vita delle comunità. Qui, malgrado la società dei trasporti si chiami Francigena, c’è sempre stata una minore attenzione al cammino dei pellegrini. Qualcosa sta cambiando ora, ma ci vorrà ancora tempo perché la città senta come sua questa realtà. E dire che proprio da qui le vie si possono raddoppiare tanto che noi domani non proseguiremo lungo la via Cassia passando da Vetralla, ma prendere la variante Cimina per arrivare direttamente a Sutri. Sono trenta chilometri con un avvio bello duro che da 300 metri ci porterà velocemente a quasi 900 per toccare il secondo punto più in alto dopo la Cisa.

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Pubblicato il 07 Luglio 2015
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