La Varese che produce cerca una strategia per il futuro

Il primo passaggio alle Ville Ponti di "Varese in prospettiva", il progetto realizzato dalla Camera di commercio in collaborazione con l'università Liuc di Castellanza, ha suscitato interesse e dibattito tra il pubblico. Fabio Lunghi, presidente della Camera di commercio: «Vogliamo capire dove siamo e quale futuro possiamo costruire. Noi tracciamo la linea poi spetterà ai politici prendere le decisioni»

Se la riuscita di un convegno si misura dalla profondità e dalla partecipazione al dibattito finale, allora il primo passaggio alle Ville Ponti di “Varese in prospettiva“, il progetto realizzato dalla Camera di commercio in collaborazione con l’università Liuc di Castellanza, si può dire riuscito. Elaborare una strategia competitiva del territorio per i prossimi dieci anni, che è l’obiettivo posto dal progetto, non è certo un compito facile. «È il primo passo di un percorso importante – ha detto Fabio Lunghi, presidente della Camera di commercio – Vogliamo capire dove siamo e quale futuro possiamo costruire. Un percorso rapido in grado di dare risultati concreti per avere la possibilità di scelta. Noi tracciamo la linea poi spetterà ai politici prendere le decisioni».

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«Abbiamo centottanta giorni di tempo per traghettare gli spunti raccolti oggi  in qualcosa di concreto e operativo per le nostre aziende – ha aggiunto Massimiliano Serati, direttore della divisione ricerca della Liuc Business School -. Da qui a marzo abbiamo un’agenda: apriremo dei tavoli di confronto, proporremo altri momenti di condivisione sul territorio, fino ad arrivare a lanciare il sasso della sfida culturale».

Le variabili che si intrecciano nel modello pensato dai ricercatori della Liuc sono tante. Si va dalla tecnologia all’ambiente, dalla finanza alla politica, passando per il capitale umano e la dimensione di impresa. È su queste traiettorie che i territori devono imparare a competere. «Anche se la nostra provincia si può considerare una micro Baviera – ha sottolineato  Serati – noi vogliamo portare il territorio a ragionare sui cortocircuiti in atto. Per esempio, riflettere sulla tecnologia e la migrazione vuol dire collegarsi al problema demografico e a quello produttivo. Non ci sono soluzioni di comodo per rispondere alla complessità del mondo globalizzato».

Sul versante delle imprese c’è sicuramente un problema di efficienza legato alla dimensione delle stesse. L’economista, oltre a queste, pronuncia altre parole chiave: produttività, skills da cercare «sperando di trovarle dove siamo» e migrazione. «Bisogna crescere perché i piccoli soffrono la competitività – ha detto il docente della Liuc – e soffrono anche sulla gestione del capitale umano e sul versante tecnologico. Una risposta alternativa è il networking». Qualunque sia la strategia di crescita scelta, alle imprese è richiesta una certa resilienza per rispondere alle sollecitazioni che arrivano dalla globalizzazione, la cui spinta ha solo rallentato. Serati, da qui al 2030, ipotizza almeno quattro mondi alternativi caratterizzati dai neocolonialismi, dall’ipercompetizione 4.0, che tenderà a rafforzare la globalizzazione, dai nuovi luddismi e dagli squilibri nel rapporto tra uomo e tecnologia.

La globalizzazione continuerà, nel bene e nel male, a produrre i suoi effetti. Roberto Scalise, senior economist di Banca d’Italia, ha sottolineato che la crescita del Pil globale tra il 1990 e il 2018 è stata del 70% e che la diminuzione delle persone in povertà è stata pari a 1,2 miliardi. Al tempo stesso però si registra un aumento delle disuguaglianze sociali e si iniziano a vedere i disastrosi cambiamenti climatici dovuti all’azione dell’uomo. In questo contesto globale, l’economia italiana manifesta quattro fattori di difficoltà: una specializzazione in settori economici maturi, imprese troppo piccole, un capitalismo ancora familiare e la spiccata dipendenza dalle banche. «Il declino non è un destino inarrestabile – ha precisato Scalise –  si può e si deve fare qualcosa. La prima cosa da fare sono investimenti pubblici e privati in conoscenza, visti gli indici deprimenti sull’utilizzo delle competenze digitali del nostro Paese. Per non parlare poi di quelle finanziarie:  il 75% delle persone non capisce se il conto corrente è a credito o a debito».

L’italia si trova così sempre più spesso a competere verso il basso. Per esempio, in fatto di digitalizzazione, secondo la classifica di Eurostat, il Belpaese si trova al quart’ultimo posto in compagnia di Romania, Bulgaria e Grecia. E non conta nulla il fatto che la provincia di Varese e la stessa Lombardia siano considerate tra le aree più avanzate e sviluppate del Nord Europa. È il sistema Paese che viene preso in considerazione. Un ruolo importante è giocato dalle infrastrutture e a questo proposito Sandro Bicocchi, direttore dell’ufficio studi Pwc, osserva che il livello di export è influenzato dal gap infrastrutturale e logistico. «Questo spiega perché nonostante l’Italia sia il secondo paese manifatturiero in Europa – ha detto Bicocchi- nell’export viene superato da Belgio e Olanda che esportano principalmente fiori e cioccolato. In questo caso la differenza la fanno i porti di Anversa e Rotterdam». Per evitare di collocarsi nella parte bassa della catena del valore,  bisogna investire in formazione. «Il capitale umano – ha spiegato il direttore dell’ufficio studi di Pwc – tenderà a impoverirsi soprattutto nelle imprese più piccole, quelle con meno di dieci dipendenti, dove raramente si offrono al personale percorsi di crescita adeguati».

In tutte queste dinamiche le politiche fiscali c’entrano poco. Il tema ha un peso solo nel dibattito politico interno  al Paese, ma fuori dai confini nazionali non conta più nulla. «La gestione dei mercati integrati è cambiata – ha spiegato Lucia Tajoli, docente di politica internazionale al Politecnico di Milano e ricercatrice dell’Ispi – perché i fattori che conoscevamo non sussistono più. Qualcuno sa che  fine ha fatto il concetto di inflazione? Nel mondo globalizzato le singole politiche sono irrilevanti. E quindi anche la fiscalità italiana non incide in modo significativo».

Nemmeno la Cina, secondo la studiosa, può essere considerata come prima. «I dati ci dicono che lo shock legato all’ingresso dei cinesi sul mercato è passato. Adesso sono impegnati a curare la domanda interna e per il resto del mondo questo significa che la pressione dell’export cinese sui mercati globali si allenterà. Una crescita più equilibrata è dunque una buona notizia. Al posto di nazionalizzare o dare sussidi, le imprese hanno bisogno di capitale umano di qualità e infrastrutture che funzionino, oltre a un’Italia con un ruolo di primo piano in Europa».

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Pubblicato il 22 Novembre 2019
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