“Maltrattava la figlia del boss“, ma il tribunale di Varese lo assolve
Capo d’imputazione rimodulato: non più maltrattamenti in famiglia ma stalking, che in difetto di querela ha scagionato il giovane. La difesa: “Racconto fumoso della parte offesa". Manca la prova, anche il pm chiede l'assoluzione
Due ragazzi che si amano in una situazione difficile, complicata da due elementi chiave. Primo: lei è figlia di un boss di camorra, ora collaboratore di giustizia, e l’intera famiglia è inserita in un programma di protezione per testimoni. Secondo: il compagno della ragazza, finito a processo, avrebbe tenuto comportamenti ben oltre il biasimevole: capelli tirati, schiaffi, sputi in faccia all’ormai ex fidanzata, diventata nel frattempo madre di suo figlio.
Una situazione che la donna, comprensibilmente, non ha tollerato, al punto da sporgere denuncia per maltrattamenti in famiglia, reato grave e “ostativo”, che può portare direttamente in carcere chi ne viene riconosciuto colpevole.
Scatta quindi l’azione penale e si arriva al processo. Ma la testimonianza della parte offesa si rivela «particolarmente confusa», come ha ammesso l’avvocata Carlotta Calemme, difensore dell’imputato.
Le ricostruzioni in aula sono state fumose, a tratti difficili da comprendere anche per via della terminologia usata nelle escussioni.
Fino al colpo di scena: il pubblico ministero Lorenzo Dalla Palma ha chiesto la riqualificazione del reato da maltrattamenti a stalking, che, in assenza di querela, ha portato a una doppia decisione del collegio giudicante: assoluzione perché il fatto non sussiste per i maltrattamenti e non doversi procedere per gli atti persecutori.
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