Una mostra sul Pci per riflettere su passato e presente

Rocco Cordì, ultimo segretario provinciale del PCI dal 1987 al 1990, ha vissuto in prima persona i momenti più importanti del Partito comunista italiano e non solo a livello locale

Rocco Cordì è nato a Grotteria, in provincia di Reggio Calabria, il 4 settembre 1949.
Vive e lavora a Varese dal 1968. Il suo impegno politico e sociale risale alla fine degli anni sessanta Con l’iscrizione al PCI nel 1969 comincia un percorso che lo porterà ben presto a ricoprire all’interno del partito incarichi sempre più rilevanti (Segretario provinciale della Federazione Giovanile, Segretario cittadino di Varese, membro della segreteria provinciale).
Nel 1982 viene eletto Segretario generale della CGIL del “comprensorio “ Busto – Ticino Olona, una tra le aree più industrializzate del Nord. Nel 1987 ritorna al partito con l’incarico di Segretario provinciale del PCI. All’inizio degli anni ‘90 la sua “carriera” politica viene interrotta in seguito alla sua scelta di collocarsi nella “minoranza” del PDS. Nel 1994 matura la convinzione di dimettersi da “funzionario” di partito. Quel ruolo ricoperto per anni con passione e dedizione è diventato troppo “stretto” a causa della netta contrarietà che nutre nei confronti della “deriva moderata” ormai vincente nel partito ad ogni livello. Resta iscritto ai DS (eredi del PDS) fino al 2004, ma di fronte all’ennesima svolta che prefigura la nascita del futuro PD, abbandona definitivamente il partito e comincia un nuovo percorso a sinistra senza iscriversi a nessun partito. Nel 2005 è tra i promotori, insieme a Mario Agostinelli e tanti altri, della associazione politico-culturale Unaltralombardia, il cui obiettivo è quello di contribuire al rinnovamento politico e culturale della sinistra.
Nel 2009 il progetto comincia a prendere forma nella costituente Sinistra e Libertà. In tale lista si presenta candidato al parlamento europeo nella circoscrizione NordOvest. Nel 2010 contribuisce alla nascita di Sinistra Ecologia Libertà. Nel 2011 viene eletto in consiglio comunale a Varese

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La mostra “Il Pci nella storia d’Italia”, allestita presso la Cooperativa di Viale Belforte a Varese (30 settembre-10 ottobre),  è una buona occasione per ripensare e riflettere, senza pregiudizi, su una straordinaria vicenda politica e umana.

Dallo scioglimento del PCI, sono trascorsi ormai vent’anni, uno stuolo impressionante di soggetti si è mosso per liquidare quella storia deformandola o, più comodamente, dimenticandola. Ma la storia del PCI non può essere facilmente archiviata, né consegnata all’oblio, per la semplice ragione che, nel bene e nel male, è parte integrante della storia nazionale. Non a caso la mostra è stata inserita tra le manifestazioni culturali dedicate al 150° anniversario dell’Unita d’Italia. Le immagini e i documenti proposti ripercorrono le tappe più significative della storia del PCI dalla sua fondazione (Livorno 21 gennaio 1921) al suo scioglimento (Rimini 4 febbraio 1991).
Per comprendere il ruolo svolto dal PCI in 70 anni di vita occorre evitare sia le “letture” acritiche che quelle farcite da pregiudizi: le interpretazioni mitologiche sono nocive almeno quanto quelle dettate da un anticomunismo duro a morire.
Il PCI nacque non da una disputa accademica tra “riformisti” e “rivoluzionari”, ma nel vivo di un contesto nazionale e internazionale che avrebbe segnato l’intero novecento.
Dopo la guerra del 1915/1918 l’Italia era un paese allo sbando alla prese con l’esito disastroso della guerra e le crescenti contraddizioni sociali prodotte da uno sviluppo dell’industria tanto tumultuoso, quanto distorto. Nel 1917 si afferma la rivoluzione in Russia mentre in tutti i paesi europei i partiti socialisti (all’epoca partiti più rappresentativi del movimento operaio) si pongono il problema della rivoluzione in occidente.
E’ in questo clima che si forma la componente comunista del PSI (minoritaria) che poi darà vita al PCI. Un partito i cui dirigenti e militanti saranno costretti, con l’avvento del fascismo, a conoscere, la durezza della clandestinità, del carcere, dell’esilio. Muore in carcere anche Antonio Gramsci fondatore e poi segretario del partito: l’obiettivo indicato da Mussolini di “impedire a quel cervello di funzionare” era stato raggiunto, ma il pensiero di Gramsci continua ad essere fonte di ricerca e di ispirazione.
Queste le condizioni in cui si temprano gli uomini che poi saranno protagonisti della Resistenza, della Guerra di Liberazione, della nascita della Repubblica, della scrittura della Costituzione.
Il 1948 segna un nuovo spartiacque. Il clima di unità nazionale che, dopo la Liberazione, aveva consentito la formazione di governi con la partecipazione di tutte le forze antifasciste, si interrompe bruscamente. Comincia l’epoca della “guerra fredda”, della divisione del mondo nei due blocchi egemonizzati l’uno dagli USA, l’altro dall’URSS.
I comunisti italiani sono messi nuovamente a dura prova in un paese ancora da ricostruire, ma in cui le ferite prodotte dalla guerra tarderanno a ricucirsi. Nonostante i tentativi messi in atto per isolarlo e ridurlo a forza residuale (scomunica papale compresa), il PCI diventa partito di massa e protagonista primario delle lotte operaie e popolari, oltre che delle battaglie parlamentari e del governo di molti comuni e province.
La repressione poliziesca e le mille forme di intimidazioni messe in atto anche nei luoghi di lavoro (“reparti confino” e licenziamenti) non sono però sufficienti a piegare un movimento politico che trova le sue ragioni e i suoi consensi non in virtù di una ideologia astratta, ma nella capacità di “aderire a ogni piega della realtà sociale” e di indicare un progetto di cambiamento “strutturale” per l’Italia.
Il PCI costruisce la sua credibilità e la sua forza misurandosi concretamente con i nodi sociali e politici della “ricostruzione” e per un nuovo sviluppo economico che consenta di superare la fragilità del tessuto produttivo, il dualismo Nord-Sud, l’arretratezza dell’agricoltura. Il PCI non elabora soltanto una strategia politica e programmatica, ma promuove (grazie al suo radicamento crescente) battaglie memorabili per la terra ai contadini, per affermare i diritti dei lavoratori, per l’occupazione e l’emancipazione femminile, per consolidare la democrazia e difendere la Costituzione, per la pace. Un partito, dunque, che sa volare alto interrogandosi (e dando risposte) anche sul rapporto tra intellettuali e popolo, tra governanti e governati.
E’ in questo rapporto con la società italiana, con gli uomini in carne ed ossa, come avrebbe detto Gramsci, che il PCI ha assunto un ruolo rilevante non solo delle vicende politiche nazionali, ma anche della storia sociale e culturale del nostro Paese.
Certo il PCI fu anche parte integrante della storia del comunismo internazionale.
Il “legame di ferro” con l’Urss nacque e si consolidò negli anni della clandestinità e proseguì ancora a lungo fino agli anni ’60. Nel 1968, quando l’URSS invade la Cecoslovacchia per soffocare la “primavera di Praga”, quel legame si incrina profondamente e le distanze diventeranno poi sempre più incolmabili. Sarà Enrico Berlinguer a segnare le tappe del distacco con i paesi del cosiddetto “socialismo reale”: dal discorso di Mosca (1969) con la critica al “modello sovietico” e all’idea del “partito guida”, al 1976 quando afferma la “democrazia come valore universale” valida dunque in tutti i paesi del mondo, al 1979 con le tesi sul nuovo internazionalismo e la costruzione in Europa di rapporti sempre più solidi con i partiti del socialismo europeo.
Con Berlinguer Segretario (eletto nel 1972) il PCI conosce una stagione di credibilità e consensi mai raggiunti da nessun partito comunista. Dopo il golpe in Cile (1973) organizzato dall’esercito cileno e sostenuto dalla Cia, Berlinguer – preoccupato anche dalla piega che stanno prendendo gli eventi in Italia – elabora la strategia del “compromesso storico”. E’ utile ricordare che la vittoria del referendum sul divorzio e le grandi avanzate del 1975 (elezioni regionali, provinciali e comunali) e del 1976 (elezioni politiche) sono successive a quella scelta strategica.
Ma l’evoluzione del PCI e i suoi successi, il peso crescente dei sindacati e delle lotte operaie e studentesche, le pratiche sempre più diffuse di una democrazia dal basso che investe ogni ambito e sfera della società italiana, mettono in discussione equilibri e assetti sociali che apparivano inamovibili.
Il sistema di potere costruito dalla DC dal 1948 in poi comincia a vacillare, grazie anche ai fermenti che attraversano il mondo cattolico e alle aperture post-conciliari della Chiesa.
Per fermare questo processo si metteranno in moto forze rilevanti, interne ed esterne.
Dalla strage di Piazza Fontana (1969) all’uccisione di Aldo Moro (1978) l’Italia conoscerà uno dei periodi più bui e sanguinosi della sua storia. Il PCI si espone in prima fila, senza tentennamenti, per contrastare prima la “strategia della tensione” e i “rigurgiti fascisti” e poi la violenza estremista e il terrorismo delle Brigate Rosse. 
Ma è nel vivo dei mutamenti economici degli anni “80 (eventi preparatori della cosiddetta globalizzazione) che comincia la crisi del PCI. In un paese già duramente provato dagli eventi del decennio precedente e incapace di produrre un ricambio democratico prende avvio un processo di trasformazione che sconvolgerà l’apparato produttivo del Paese e con esso gli assetti sociali preesistenti.
Gli anni ottanta sono anche gli anni di Reagan e della Thatcher. Con loro si afferma un’idea di liberismo selvaggio (eufemisticamente definito neoliberismo) fondata su tre principi basilari: monetarismo, primato del mercato, smantellamento dello stato sociale. Il reaganismo-thatcherismo diventerà ben presto un modello politico da esportazione, la nuova ideologia che ridisegnerà il mondo.
In Italia, una classe dirigente in affanno (pochi anni dopo, nel 1992, verrà sepolta sotto le macerie di tangentopoli) tenta di riproporre quel modello evitando di interrogarsi sugli effetti che può produrre in un Paese la cui struttura economica e sociale ha poco in comune con USA e GB, mentre l’assetto istituzionale e politico appare ormai gravemente incapace di produrre cambiamenti sostanziali. La “questione morale” che attanaglia il Paese non è infatti una semplice questione di corrotti e corruttori, ma di una politica piegata alla pura gestione del potere e di partiti dominati dalla logica di “occupare” ogni spazio (Berlinguer, intervista rilasciata a Repubblica 1981, dieci anni prima di tangentopoli!).
In una situazione così complessa Berlinguer colloca il PCI nettamente in opposizione al neoliberismo trionfante proponendo una strategia di “alternativa democratica” in cui prende corpo un progetto di trasformazione economica e sociale (che riprende anche il tema dell’austerità, proposto nel 1976). Progetto duramente osteggiato non soltanto dalle forze al governo (DC-PSI), ma anche da oppositori interni contagiati da quel neoliberismo che in Italia troverà in Craxi il protagonista principale.
Berlinguer muore l’11 giugno 1984 in seguito a un malore che l’aveva colpito durante un comizio a Padova; la perdita per il PCI è irreparabile. Nessuno riuscirà più a conciliare le diverse posizioni esistenti al suo interno rese ancora più divaricate dalla crisi in atto. Non ci riuscirà il Segretario “di transizione”, Alessandro Natta, ma neppure la generazione dei quarantenni guidati da Achille Occhetto. L’uscita di scena di Gorbaciov, promotore in URSS di un processo riformatore e poi il crollo del “muro di Berlino” (1989), forniscono il pretesto per imprimere una accelerazione repentina al progetto di cambiamento proposto da Occhetto appena un anno prima. La svolta occhettiana, annunciata a sorpresa nel discorso della “Bolognina” porterà in poco più di anno allo scioglimento del PCI. Le intenzioni erano di “andare olltre” chiudendo il ciclo del novecento, ma quell’oltre si esaurirà nel cambiamento di un nome e di un simbolo. Il PCI viene sciolto di fatto (Rimini 1991), ma le successive trasformazioni non risolveranno le ragioni che avevano messo in crisi il più grande partito comunista dell’occidente. Una crisi connaturata più alla “novità” della globalizzazione e ai suoi effetti devastanti negli assetti economici e sociali che non ai legami, peraltro recisi da tempo, con il mondo del “socialismo reale” ormai in disfacimento.
Se, a distanza di vent’anni, resta ancora irrisolto (nonostante il fallimento del neoliberismo) il nodo politico e strategico di quale cambiamento sia necessario, se la sinistra ha smarrito ruolo e rappresentanza, se la politica appare sempre più autoreferenziale e piegata alla sola dimensione del potere, la conclusione (amara) da trarre è che la morte del PCI non è servita a nulla. Restano settant’anni di storia e di memoria collettiva che nessuno potrà mai cancellare.

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Pubblicato il 30 Settembre 2011
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