Fare il cappellano all'”Ospedale della vita”

L'esperienza di don Roberto Rogora, cappellano da molti anni dell'ospedale del Ponte e figura di riferimento spirituale

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L’Ospedale del Ponte, tutti i varesini lo sanno, è un ospedale speciale. Perchè è quello dove convergono gran parte delle mamme della provincia, dove si festeggiano i nuovi bimbi, dove quelli che hanno problemi trovano una cura, o almeno lottano con piccoli eserciti di dottori e infermieri agguerritissimi.

E’ speciale però anche per il valore e la delicatezza del “carico” che porta: di vita ma anche di dolore, soprattutto perché centrato su piccoli appena sbocciati alla vita. Ed è per questo che un “servizio” collaterale, quello spirituale, è ancora più importante e delicato: per il carico di entusiasmo, ma anche di domande, che ciò che avviene al del Ponte provoca.

Nel corso del “Mese per la Vita” che ha portato a Varese anche le reliquie  di Madre Teresa di Calcutta, Abbiamo provato a domandarlo a colui che è cappellano da molti anni dell’ospedale, e figura di riferimento spirituale: don Roberto Rogora.

«Innanzitutto, a tutti coloro a cui vado far visita, devo rispetto e ascolto. Non posso andare a dire “vi dico io cosa dovete fare” o anche solo dare una benedizione cattolica senza nemmeno sapere se è gradita. Il rispetto è la prima cosa: e prima di entrare in una stanza chiedo sempre il permesso. Penso che l’approccio e la cura in un ospedale avvenga innanzitutto con l’ascolto».

In che modo il cappellano dell’ospedale del Ponte accompagna chi ha bisogno di lui?
«Il ventaglio dell’accompagnamento all’ospedale del Ponte è molto vario: va dal momento dell’accoglienza della vita, ai momenti in cui questa vita, durante la gravidanza, è a rischio. Infine ai momenti più duri, in cui devi accompagnare i bambini  che non ce l’hanno fatta e sostenere i genitori. E non è semplice, per chi la vive, anche il momento dell’interruzione di gravidanza: sia per chi è stato in qualche modo costretto a fare questa scelta sia per chi ha fatto la scelta convintamente».

Ci sono atteggiamenti diversi, nel dolore?
«Chi subisce il trauma della perdita di un bambino, in qualunque modo sia successa, subisce un trauma. Non è una cosa semplice. nel momento in cui decidono di incontrarmi e di parlarmi hanno una sofferenza, qualunque opinione abbiano a riguardo».

Non sono solo i pazienti a rivolgersi a lei…
«Anche i dottori hanno spesso bisogno di aiuto, per le scelte che devono fare, per le situazioni che si trovano davanti. Qualche giorno fa due specializzandi sono venuti a chiedere un supporto per le problematiche che devono affrontare, tra accogliere e accompagnare mamme che desiderano fecondazione artificiale o l’accompagnamento per l’assunzione della Rsu. Loro erano preoccupati. “Noi siamo medici per la vita, ci viene chiesto qualcosa che non è in sintonia con la nostra scelta. Ma a volte ci ritroviamo a doverlo fare” Cosi sono venuti a parlare con me, e ho cercato di aiutarli ad affrontare la problematica».

E come si affronta?
«In un ospedale dove c’è morte c’è anche tanta vita. Non dimentichiamoci che questo è un ospedale dove nascono migliaia di bambini. E molto spesso chi ha perso un figlio, magari anche per scelta, ha poi ha la grazia di farne nascere uno qui».

Stefania Radman
stefania.radman@varesenews.it

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Pubblicato il 13 Febbraio 2017
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