Nessun colpevole per Lidia Macchi, “delitto dalla verità impossibile“

Le motivazioni della sentenza d’appello non escludono l’ipotesi di altre indagini, “strada irta e difficoltosa”. Ma i cronisti varesini degli anni Ottanta non ci credono

Lidia Macchi

Ogni delitto porta con sé tante verità. Ci sono quelle processuali, che possono come nel caso Lidia Macchi maturare mettendo la parola fine alle accuse nei riguardi di un innocente.

E ci sono quelle storiche, che corrono il rischio di restare immutate dal momento che ad un innocente tornato in libertà continua a corrispondere un colpevole non ancora trovato.

Arrivare al dunque, è un percorso difficile: ad oggi non ci sono indagini in corso.

Tuttavia, proprio nelle motivazioni dell’appello che ha scagionato Stefano Binda dalle accuse di omicidio emergono alcuni passaggi interessanti che assumono una luce ancor più viva se letti all’indomani della decisione della Cassazione.

I giudici milanesi nelle conclusioni accennano a quanto sarebbe ancora possibile fare.

Cioè la comparazione delle tracce biologiche trovate su alcuni capelli rinvenuti nella zona publica della vittima («a fronte di un congiungimento carnale certo e inconfutabile», capelli, o peli «dell’individuo che ebbe con lei quell’unico/ultimo rapporto sessuale completo che ha condotto alla sua violenta – e, tuttora, di incerto movente – soppressione fisica»), con quelle isolate sulla colla che ha sigillato la lettera “In morte di un’amica” (giunta ai familiari il giorno del funerale di Lidia): «Se dette tracce com’è possibile non fossero geneticamente coincidenti allora si smetterebbe di favoleggiare» sull’identità dell’autore, «per concentrarsi con il dovuto impegno solo all’identificazione» dell’assassino di Lidia.

«Strada investigativa irta di difficoltà, certamente ma ancora possibile e percorribile», scrivono i giudici milanesi.

Generica 2020

Ma cosa pensano, a caldo, i cronisti di quei tempi oramai lontani? Quale giudizio proviene dai testimoni in carne e ossa fatti – proprio come oggi, ma a colori sbiaditi – di barbe lunghe, occhiaie e giornate passate al freddo per raccontare del “Caso Lidia Macchi”?

Gianni Spartà, penna di punta in quegli anni della “nera“ per la Prealpina, nel 2015 ha pubblicato un libro dal titolo “Tutta un’altra storia” che in una parte tratta proprio del caso Lidia Macchi, con un capitolo dal tutolo piuttosto eloquente: “Una verità impossibile“.

«No, è impossibile oggi risalire, dopo oltre trent’anni, all’omicida di Lidia Macchi. Troppo tempo è passato, il vero colpevole può essere già morto. Ma c’è un altro fattore da tenere bene in considerazione: questa ricerca esporrebbe la famiglia della vittima al rischio di altre illusioni dopo la lunga strada processuale che ha già visto troppe persone additate come colpevoli».

Resta l’amaro, per Spartà, su quanto avvenuto in questi anni a Stefano Binda. «Le indagini e la custodia cautelare in carcere così lunga poi un processo definito dagli stessi giudici “indiziario“ che porta all’ergastolo. No, quanto successo a Binda spero non accada mai più nel nostro Paese».

Difficile arrivare a un dunque anche per Claudio Del Frate, oggi al Corriere della Sera e che seguì il caso anche da Varese: «Mancano i fattori nuovi per riaprire un processo. Un pubblico ministero si troverebbe di fronte agli elementi accusatori finora invocati ma appena mandati al macero dalla Cassazione. Gli unici spunti che possono giocare a favore di una riapertura del caso sono due: la confessione del colpevole, o qualcosa di veramente nuovo (e ora indefinito) di una tale portata da risultare fondamentale per l’identificazione del responsabile». Dunque, per entrambi gli scenari, mancano i margini di manovra.

«Ho molto apprezzato le parole della famiglia Macchi», conclude Del Frate, «in particolare quelle rivolte allo stesso Binda che ho trovato equilibrate e civili».

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Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it

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Pubblicato il 28 Gennaio 2021
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