Lettera aperta sull’ex Aermacchi

Una bella riflessione di un giovane varesino che da sempre vive accanto alla fabbrica che oggi si trova al centro di un grande progetto di riqualificazione. «Non voglio che dopo una settimana di schermaglie l’argomento torni di nuovo nel cassetto delle “cose da fare quando si potrà farle”»

Lettera aperta sull\'ex Aermacchi

L’immagine di quella città in miniatura mi ha accompagnato fin da quando ho potuto gettare uno sguardo oltre il balcone di casa. Così grande e allo stesso tempo quasi a portata di mano, tanto è vicina, incastonata sul fondo della valle e quasi sorvegliata dalla sagoma inconfondibile del Palace.
Per me era anche qualcosa in più. Già, perché lì ci aveva lavorato il nonno. Il nonno Giulio ci faceva gli aerei, lì dentro, e ogni volta che ne vedevo uno il pensiero andava a lui e a quei giganteschi muri bianchi da cui nella mia testa un tempo uscivano splendide macchine volanti.

Ogni mattina quando andavo a scuola ci passavo a fianco e, giorno dopo giorno, l’ho vista lentamente invecchiare, più di quello che già facesse da sola una fabbrica senza operai.
Una mattina, dopo una nevicata, ho visto un enorme tetto crollato su se stesso. Un altro giorno la scritta sbiadita sul padiglione della mensa in via Crispi era venuta giù dalla facciata con tutto l’intonaco.
Per chi vive o ha vissuto tra la Brunella e Masnago, insomma, l’ex Aermacchi è più o meno consapevolmente una compagna della propria quotidianità.
Negli ultimi giorni il tema della sua riqualificazione è tornato alla ribalta sulle pagine locali e sui profili social di molti varesini. Come al solito – e, aggiungo io, come è anche giusto che sia – politica e opinione si sono divise tra chi ritiene che il progetto presentato per il rilancio dell’area sia da prendere al volo e chi invece pensa che non sia all’altezza. Io purtroppo non ho le competenze tecniche per giudicarlo nello specifico. Da varesino, tuttavia, ritengo opportune alcune piccole riflessioni sulla vicenda.

Innanzitutto voglio dire che sono contento che se ne parli. Sì perché già capire che c’è un problema e discutere per risolverlo è un imprescindibile punto di partenza per migliorare le cose. Ma non è neppure abbastanza. Sono svariati anni che sento di fantasmagorici progetti di riqualificazione (centri commerciali, polo uffici, ecc.) puntualmente rivelatisi semplici proclami per attirare l’attenzione giusto lo spazio di tempo di qualche giorno, per poi ritornare nel dimenticatoio, pronti a essere riesumati alla volta successiva. E intanto il gigante resta lì, fermo e immobile. O meglio, in lento e costante disfacimento.
Il motivo per cui scrivo questa breve lettera aperta è proprio questo: non voglio che dopo una settimana di schermaglie l’argomento torni di nuovo nel cassetto delle “cose da fare quando si potrà farle”. Sono ben consapevole che realizzare progetti, mettere d’accordo parti con interessi a volte divergenti è un lavoro complesso, lungo, faticoso; in una parola: difficile. Ma sta proprio qui la capacità delle persone (perché di persone parliamo, non dimentichiamolo), siano essi politici, professionisti o imprenditori.
L’appello accorato che rivolgo è dunque quello di confrontarsi per giungere ad una sintesi. Credo che le premesse ci siano. Soprattutto credo che sia giunto finalmente il momento di fare qualcosa. E con ciò non voglio dire che qualsiasi cosa vada bene o che l’importante sia solo togliere dalla vista un inutile rudere. Nessuna riprogettazione dell’area potrà prescindere dalla sua storia e allo stesso modo continuare ad aspettare finché si realizzi il migliore dei piani possibili penso fermamente sia la peggiore eventualità per la città e per gli abitanti del quartiere. Chi propone deve assumersi la responsabilità di offrire consapevolmente il meglio, chi valuta deve avere la capacità di correggere e indicare dove sono gli effettivi margini di miglioramento. Il muro contro muro è una sconfitta per tutti: singoli e, per conseguenza diretta, collettività.

Vorrei concludere con un’ultima considerazione. In questi dolorosi mesi di pandemia abbiamo (spero) imparato l’importanza suprema della salute, nostra e dei nostri cari. La salute ritengo che tocchi da vicino anche il tema della rilancio dell’ex Aermacchi. Tutti coloro che passano da via Crispi e da via Sanvito non possono non notare le immense coperture in Eternit che rivestono i capannoni affacciati sulle strade, a pochi passi dalle case. Io ora ho venticinque anni e con la realtà della fabbrica dismessa sono cresciuto, ho imparato che non è solo un serbatoio di ricordi, pure poetici, ma è anche un luogo in rovina, e la rovina è tale in quanto percepita come qualcosa di nettamente separato dal suo contesto ambientale. Ecco, vorrei che l’area dell’ex Aermacchi tornasse a essere parte del quartiere e della mia città. È un’urgenza che tutti dovrebbero sentire e fare propria.

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 03 Dicembre 2020
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