Taisch (Politecnico): “Con il digitale serve più consapevolezza”
Il professor Marco Taisch spiega l'importanza dell'informazione e del ruolo che devono avere le Camere di Commercio e le associazioni di rappresentanza nel diffondere la cultura dell'industria 4.0
Marco Taisch, docente di ingegneria gestionale al Politecnico di Milano e co-responsabile del progetto nazionale Osservatorio Industria 4.0, quando parla della rivoluzione tecnologica in atto è piuttosto tranciante: «L’impresa deve anticipare i tempi e fare propria questa rivoluzione per implementarla perché in gioco c’è la competitività. E fare finta che questa cosa non riguardi certe dimensioni di impresa vuol dire non accettare uno scenario globale che sta cambiando».
Professore, questo processo però non è iniziato oggi.
«È dal 1970 che le tecnologie sono entrate nelle imprese, ma con il digitale questo processo sta accelerando notevolmente. In questa fase c’è molta più raccolta dati che analisi e la nuova interfaccia uomo macchina incide sulla competitività. Il pericolo è che questo fenomeno venga sottovalutato».
È sufficiente non sottovalutarlo per gestirlo correttamente?
«No, perché anche l’imprenditore che non lo sottovaluta non è detto che poi sia capace di capirlo. Il vero problema è che stiamo parlando di tecnologie, come per esempio big data e cloud, che non sono percepibili al tatto. Per dirla con un’immagine: il dato non è il floppy disk. Quindi serve un salto concettuale».
Allora che cosa bisogna fare in questa fase?
«La smaterializzazione del dato e dell’algoritmo fanno sì che le ricadute culturali di questa rivoluzione siano più importanti di quelle che immaginiamo. Quindi occorrono investimenti per acquisire le competenze necessarie che vanno formate e preparate. Questo passaggio è agevolato dai benefici fiscali previsti dalla legge di bilancio con un credito di imposta sulle attività».
Quando si parla di industria 4.0 si ha sempre la Germania come punto di riferimento. Esiste una via italiana a questa rivoluzione?
«Credo proprio di sì. La dobbiamo trovare perché non si tratta solo di capire le nuove tecnologie ma anche di applicarle a un sistema formato da una miriade di piccole imprese che hanno una grande velocità di adattamento e una minore capacità di investimento. E comunque non credo che esista solo la fabbrica 4.0 al cento per cento. Semmai, connettendo le imprese tra loro, dobbiamo progettare delle filiere e catene del valore 4.0».
I robot porteranno via il lavoro?
«Lo trasformeranno. Oggi c’è un fattore di automazione cognitiva che non vuol dire avere solo macchine che si sostituiscono all’operatore, ma avere operatori in grado di interpretare il dato in tempo reale e prendere decisioni senza perdere tempo. Quindi avere più efficienza e minori costi è un valore aggiunto. In questo quadro la formazione non è più un optional ma è necessaria e chi non la fa ne paga le conseguenze in termini di minore competitività».
In questa fase qual è il ruolo che alcuni enti, come le Camere di Commercio, possono avere?
«La Camera di Commercio deve essere un moltiplicatore di consapevolezza. È un ruolo delicato perché devono tenere informate le imprese su quello che sta succedendo nel mondo, mirando all’obiettivo quasi del porta a porta. Loro possono farlo per l’autorevolezza e la capillarità che hanno sul territorio. D’altronde dove si parla di industria 4.0? Sui grandi giornali perché è un argomento da tecnici, ma non c’è un solo show televisivo che ne parli al grande pubblico. Insieme agli enti camerali ci sono poi le associazioni di rappresentanza che devono sfruttare i loro canale privilegiato. Di solito parlano di problemi fiscali e di organizzazione del lavoro, mentre oggi gli viene richiesta un’azione diversa e un ruolo di responsabilità nei confronti del cambiamento in atto. Forse questo è il momento di riappropriarsi del loro ruolo storico, spesso sacrificato sull’altare dei servizi».
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