Memo Remigi compie 80 anni: “Mi sembra ieri”

Tanta ironia e una vita vissuta con pienezza. L'artista varesino sta vivendo una seconda vita artistica grazie alla Tv. «"La notte dell'addio" è la mia canzone preferita»

Avarie

«Potrebbe essere l’ultima e quindi avranno detto: dai buttiamolo dentro». Memo Remigi ha un’ironia straordinaria, scherza con intelligenza sui suoi 80 anni che ha festeggiato in prima serata su Rai Uno da Fabio Fazio a “Che tempo che fa”. «L’ironia è necessaria, altrimenti non si vive – dice l’artista – Ma per favore non mi chiami dottor Remigi io sono a malapena ragioniere. Appena diplomato ho fatto stampare dei bigliettini da visita con la sigla “rag”. E la metto ancora oggi perché è la forma abbreviata di ragazzo».

Beh, in effetti lei i suoi 80 anni li porta con grande leggerezza.
«Tutto quello che ho fatto in oltre cinquant’anni di carriera si può riassumere con una frase: “sembra ieri”. Quando hai questa sensazione allora vuol dire che la fiamma è ancora viva»

Da “Che tempo che fa” a “Propaganda live”, Memo Remigi sta vivendo  una seconda vita artistica slegata dalla canzone, è forse questo il suo segreto?
«In realtà io non sono nato come grande cantante, ma come personaggio televisivo che presentava i grandi cantautori nella trasmissione “Ha qualcosa da dire”. Poi ho condotto “Con rabbia e con amore” e soprattutto “A modo mio” su Rai Uno nel contesto di “Domenica in”. Corrado Mantoni si collegava con Milano e io avevo come ospiti grandi artiste, parliamo di Catherine Spaak, Lea Massari, Rosanna Schiaffino, erano loro a decidere come doveva essere la puntata e chi invitare».

Cosa è cambiato nella tv rispetto agli anni ’80, allora c’erano programmi che facevano share da capogiro quasi più di Sanremo.
«C’era meno concorrenza. Per esempio io ho fatto “Fantastico 2 ” che aveva 12 milioni di spettatori grazie a un cast di prim’ordine che comprendeva: Heather Parisi, Oriella Dorella, Raffaele Paganini, Walter Chiari, Gigi Sabani, Claudio Cecchetto e Romina Power. Gli artisti lo erano nel senso più completo della parola. Ho fatto anche l’esperienza del teatro portando in giro per l’Italia con Arnoldo Foà la commedia giallo rosa “Un angelo calibro nove”».

Insomma, non si è fatto mancare niente.
«Ah, ho vinto anche uno Zecchino d’oro con la canzone “Un bambino”, lavorato con Topo Gigio e composto l’inno dei mondiali di ciclismo di Varese»

Lei ha firmato moltissime canzoni di successo, di cui alcune hanno fatto il giro del mondo. Qual è quella a cui è più legato?
«”La notte dell’addio” che nella serata di Sanremo dedicata ai 150 anni dell’Unità d’Italia è stata inserita tra le dodici canzoni più belle di sempre. La scelse Franco Battiato che l’arrangiò e diresse l’orchestra per l’interpretazione di Luca Madonia. E pensare che quella canzone cantata dalla Zanicchi nel Sanremo del 1966 non ebbe il successo che meritava. Doveva cantarla Mina che poi per ragioni personali decise di non partecipare. In quel festival come autore portavo due canzoni in gara, l’altra era “Io ti darò di più” cantata da Ornella Vanoni che divenne un successo internazionale. Uno strano destino, perché dovevo cantarla io ma il direttore del festival di allora, Gianni Ravera, mi convinse a restare fuori perché doveva lasciare posto a Orietta Berti».

Qual è la canzone che avrebbe voluto scrivere?
«Tutte quelle di Charles Aznavour, perché sono storie di realtà interpretate in modo unico. Mi piace molto anche Gilbert Bécaud»

Con l’avvento del digitale il mondo della musica è cambiato. Che cosa le manca di più degli anni del vinile?
«Sono nato a Erba e cresciuto a Como. E quando sono arrivato a Milano ho trovato un mentore straordinario: il maestro Giovanni D’Anzi. L’atmosfera che si viveva nella Galleria del Corso a Milano era unica perché lì c’erano tutte le più importanti edizioni musicali, da Ricordi a Curci, e quando camminavi tra quegli splendidi edifici la musica risuonava da ogni finestra e ogni angolo.  In galleria si formavano le band per andare a suonare nei locali milanesi. C’era la pensioncina del Corso il cui ultimo piano era occupato totalmente dalla scuola genovese. C’erano Bindi, Lauzi, Paoli, erano tutti lì perché chi voleva fare e vivere di musica non poteva che essere in quel luogo magico».

Come nasceva una canzone?
«C’erano grandi uomini che sapevano ascoltare. D’Anzi per esempio aveva un pianoforte a coda in ufficio e appena arrivavo mi metteva a suonare e in dialetto diceva: “Questo è il  mio cavallino”. Io suonavo e cantavo mentre lui scriveva o leggeva. A un certo punto mentre sembrava completamente distratto mi fermava e diceva: “Fa risentire. Com’è quella frase? Com’è strano sentirsi innamorati a Bolzano? Forse è meglio Milano”. Oppure il maestro Gorni Kramer, un gigante della musica italiana che insieme a Garinei e Giovannini ha firmato i capolavori della commedia musicale. Ogni volta che mi incontrava in ascensore si metteva a fischiettare la canzone che aveva appena scritto, per capire da me se era orecchiabile. Ah, per inciso, io non ho studiato musica sono, come si dice, un orecchiante».

Lei era molto amico di Bruno Lauzi un vero genio della musica italiana. Che ricordo ne ha?
«Da lui io ho imparato tanto soprattutto l’importanza dell’ironia. Era un genio perché della sua malattia, il morbo di Parkinson, ne ha fatto uno spettacolo che iniziava con un auto sfottò: “Oggi sono sceso da un marciapiede e mi sono ritrovato con le spalle al muro”. Oppure: “A me piace il vino ma da quando ho questa malattia ne bevo poco perché è più quello che verso per terra”. Ha scritto canzoni memorabili e una poesia che consiglio a tutti di leggere La mia mano a farfalla“. È  commovente per quanto è bella. Andai a trovarlo poche ore prima che morisse, era sul divano, io accanto a lui. Non parlava, sembrava un bambino, ma mi aveva riconosciuto e me lo fece capire con un cenno degli occhi. È un amico fraterno».

Lei crede in Dio?
«Certo. Spesso prendo la mia moto e vado in una cappelletta vicino all’abbazia di San Gemolo dalle parti di Ganna e accendo una candela alla madonnina di Lourdes ringraziandola di avermi dato questa vita piena e realizzata e prego per il mondo».

È sposato da 52 anni con Lucia. Qanto conta sua moglie in questa vita realizzata?
«C’è un detto famoso che recita: dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna. Siccome io non mi ritengo grande ma discreto l’ho trasformato in questo modo: dietro un uomo discreto c’è una donna importante. Lucia è la mia guida nella vita è la donna che diventa fidanzata, amante, amica e mamma».

Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it

Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.

Pubblicato il 27 Maggio 2018
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