Merletti: “Da bambino volevo fare il maestro”
Il dirigente scolastico provinciale, l’ex provveditore per intenderci, tra cento giorni andrà in pensione. In una intervista a tutto campo racconta la sua storia e lo stato della scuola
“Ho sempre fatto il mestiere che mi piaceva e non è poco”.
Il 31 luglio per Claudio Merletti sarà l’ultimo giorno di lavoro. Il dirigente scolastico provinciale, l’ex provveditore per intenderci, ha già fatto una prima festa con i colleghi dell’ufficio di Monza, dove teneva la reggenza.
La sua carriera si è svolta tutta all’interno della scuola. Dal 1976, per dieci anni ha fatto il maestro elementare. Entrato di ruolo alla Villoresi di Somma Lombardo, nel 1986 è diventato direttore didattico restando alla primaria fino al 2000 quando è diventato preside dell’istituto Falcone di Gallarate. Nel 2008 il grande salto che lo ha portato ai vertici della scuola provinciale. Sono cambiati i nomi, ma per tutti quel ruolo resta il “provveditore”. Una carica di grande responsabilità che prevede la guida di una realtà che coinvolge quasi ogni famiglia della provincia visto che sono oltre centomila gli studenti di ogni ordine e grado.
Sorriso sornione, Merletti è un mix tra un uomo di popolo, ci tiene a ricordare che lui arriva dalla Cgil e dal Pci dove ricopriva il ruolo di responsabile scuola, e abile mediatore con una forte competenza pedagogica. Insiste molto su questo e in ogni passaggio delle sue riflessioni viene fuori l’anima del maestro.
Come mai quella scelta iniziale?
«Da bambino con la mia famiglia vivevo ad Arsago Seprio. Avevo una vera maestra, Mariuccia Vanoni, con una classe di 42 bambini. Non era facile per lei, ma ho un ricordo ancora forte. Mio papà faceva l’operaio alla Secondo Mona di Somma e spesso mi diceva che dovevo studiare perché così non avrei dovuto sporcarmi le mani di olio. All’epoca l’ascensore sociale funzionava ancora. Chi studiava aveva la possibilità di fare una professione».
Vuol dire che oggi l’ascensore sociale si è bloccato?
«La crisi ha diminuito le chance per le persone e ne risentono soprattutto quelle più fragili. Viviamo un’epoca di grandi trasformazioni e servirebbe un maggiore rigore e impegno proprio per colmare le differenze sociali che riprendono a pesare sempre di più».
Vuol dire che a cinquant’anni da “Lettera alla professoressa” di don Milani viviamo ancora una scuola classista?
«Eccome. C’è stato un cambiamento importante, ma deve essere chiaro che l’alfabetizzazione ha sempre richiesto impegno. Oggi ancora di più perché il dislivello di chi arriva da una condizione sociale più fragile è ancora maggiore. Come dicevo il rigore di don Milani andrebbe recuperato altrimenti resti senza timone. Non concordo con i “calci in culo” che lui professava, ma resta un grande maestro per la nostra generazione. Oggi la professoressa con cui se la prendeva lui è più accogliente, ma non basta perché occorre studiare e a riguardo qualche problema c’è»
Come sta la scuola nella nostra provincia?
«Benissimo. Da anni lavoriamo su diversi tavoli territoriali e un bell’esempio è l’alternanza scuola lavoro dove abbiamo una storia lunga. L’indice di gradimento per le scuole tecniche è positivo per il 95% dei casi e ci vede al primo posto in Lombardia, mentre con i licei siamo settimi. L’offerta formativa è ottima e, fatta eccezione per il settore nautico, abbiamo tutti gli indirizzi con alcune chicche come due miei musicali e un coreutico musicale. In termini di apprendimento siamo nelle posizioni alte della Lombardia. Abbiamo un lungo elenco di storie di eccellenza come l’ITE Tosi, il Classico della Boracchi che la Fondazione Agnelli ha citato come il migliore in Italia, lo scientifico di Busto che ha una squadra campione mondiale di atletica, il Falcone che manda tanti ragazzi a Dubai. Poi non tutto è così e abbiamo anche alcune sofferenze legate anche ai dirigenti scolastici. Stanno scoppiando le crisi che riguardano i bisogni educativi speciali. C’è una articolazione di fenomeni come non ricordo in passato. Tra tecnologia e globalizzazione viviamo una frammentazione grossa ed emergono difficoltà crescenti già dalle primissime classi. Nella crisi si allentano i tessuti e più fragili scoppiano. Su 107mila studenti, in provincia abbiamo 3500 disabili e circa il doppio di questi con bisogni educativi speciali. Non è semplice dare tutte le risposte, ma i docenti ci sono e con grande impegno sono un punto di riferimento importante».
Qual è oggi il ruolo della scuola?
«Alfabetizzare. Quando ho iniziato io ad andare a scuole questo era sufficiente ad avere un futuro migliore. È stato un periodo glorioso. Ora non è così. Viviamo un momento fatto di precarietà assoluta, di mancanza di certezze. Diventa così più centrale e affascinante la figura dell’insegnante che cerchi di comprendere i cambiamenti che vivono i ragazzi. I docenti, malgrado si sia allungata la distanza generazionale con gli studenti, lo stanno facendo e non è riconosciuto. Non può essere solo la scuola da sola a porsi le domande di fronte al cambiamento delle nuove generazioni».
Negli ultimi anni abbiamo avuto ben tre riforme della scuola. Come le vede?
«Un buon docente è colui che parla con i propri studenti ed è consapevole che la riforma migliore è quella che deve ancora arrivare. Fare l’insegnante è un gran bel mestiere».
Come si sente il calo della natalità nella scuola?
«È orribile. I dati sociologici sono noti. Dopo il Giappone siamo la società più vecchia. Un fenomeno che porta sempre maggiori problemi. I giovani contano sempre meno per chi cerca la logica del consenso. C’è un invecchiamento costante e progressivo dei docenti. Diminuiscono gli studenti e non si sostituiscono i docenti. L’età media è ben sopra i 50 anni con tanti sessantenni. Questo vuol dire che in alcuni casi la distanza supera i quarant’anni aprendo tante nuove riflessioni a tutti i livelli. Tutto questo genera anche una sempre minore attenzione al mondo della scuola. Durante il baby boom c’erano tanti elementi di dibattito, oggi alcune età sono considerate solo residuali».
Arrivato a fine carriera quali sono i ricordi più belli e quelli meno?
«I momenti più difficili sono state alcune morti degli studenti. Ricorderò per sempre un fatto successo al Falcone anni fa. Al mattino un ragazzo arrivò con una corda facendola vedere ai suoi compagni e chiedendo se lo avesse retto. Nel pomeriggio si impiccò. La domanda che ti resta dentro è se avessimo fatto tutto il possibile per evitare quella fine. È terribile. Non c’è un ricordo particolarmente bello, ma una condizione che esalta chi fa questo lavoro. Vedere la progressione degli studenti anno dopo anno ti fa capire l’importanza del ruolo educativo. La differenza tra l’input e l’output dimostra quanto conti l’impegno dell’insegnante. Anche qui mi viene in mente un periodo storico preciso. Nel 2000 si rese obbligatoria la frequenza scolastica fino a 15 anni. Le scuole tecniche vennero invase subendo un cambiamento fortissimo. Ci è voluto del tempo, ma grazie alla dedizione degli insegnanti quella situazione tornò alla normalità con risultati notevoli. Un altro aspetto che ricordo con piacere è l’apertura delle istituzioni. La loro capacità di capire le situazioni e mobilitarsi ognuno con il proprio ruolo. Una risposta con i fatti e non parole ogni volta che ci siamo trovati davanti a problemi seri come lo spaccio o il timore di abusi. Varese è un territorio all’altezza. Come insegnante la parte più bella è il mettersi in gioco con i ragazzi. Il mio ruolo non è trasmettere competenze, ma condividere. La formazione è quella cosa lì, una scuola basata su un percorso educativo e pedagogico».
Cosa significa essere un dirigente scolastico oggi?
«La parte negativa è quella di chi vorrebbe fosse uno sceriffo. Abbiamo bisogno di tutto, tranne che di capi e capetti. Occorre avere la consapevolezza di essere sempre in prima linea sapendo che si può fare l’ira di Dio. Il dirigente può mettere le persone nelle condizioni migliori per favorire un buon rapporto tra studente e insegnante. Dobbiamo uscire da quel linguaggio aziendalistico che ha trovato terreno fertile negli anni passati. Si è rincorso un modello organizzativo che mirasse al soddisfacimento delle esigenze del “cliente” individuando il genitore in questo ruolo nella scuola visto che erano e sono loro a scegliere per i figli. L’errore è stato proprio quello di rincorrere un modello aziendalistico. La scuola non è un pezzo del mercato. deve saper dialogare, ma la sua funzione è altro. Il piano dell’offerta formativa che si rivolge ai genitori è sbagliato perché i risultati nella scuola non sono misurabili come avessimo a che fare con la manifattura. Il fatto che il ragazzo stia bene o male è un aspetto centrale del lavoro scolastico, ma non puoi misurarlo. Il dirigente è un costruttore di servizi che hanno una funzione pedagogica e non c’è nessuna misurazione al mondo che possa valutare il lavoro del docente. Il dirigente deve favorire il dialogo e mettere l’insegnante nelle condizioni migliori per lavorare. È un fluidificatore, è uno che conosce le regole e fa giocare ognuno nel proprio ruolo. Oggi c’è confusione tra le componenti nella scuola e gli insegnanti rischiano di essere accerchiati con una logica che “uno vale uno”, ma non è così. Non è la dimensione degli istituti il problema, anzi più la scala è grande più il dirigente troverà risorse interessanti tra i colleghi. . Serve una scuola dell’autonomia dove il docente sia conosciuto e affiancato per risolvere gli eventuali problemi. Questo fa del dirigente tutto tranne che uno che deve comandare. Deve presidiare e decidere le azioni migliori nella libertà delle interpretazioni dei singoli docenti».
Cosa farà dal primo agosto quando sarà in pensione?
«Mi prenderò qualche mese di riposo, insieme a mia moglie che andrà in pensione nello stesso periodo. Poi penso che mi impegnerò in qualche attività di volontariato e non mi occuperò più di scuola».
Ci incamminiamo per rientrare negli uffici mentre un gruppetto di ragazzini sugli scalini ascoltano musica. Merletti si ferma a guardarli, sorride e mi dice: “Fabrizio De Andrè è un altro grande maestro…”.
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