Marisa Maldera: c’era tranquillante nel sangue prima di morire
La consulenza dell’accusa conferma la presenza di Lorazepam nel metabolismo della donna “che ha influito sul sistema nervoso centrale”. I rilievi tecnici sull’auto escludono il ribaltamento

Chi muore in un incendio può avere nel sangue tracce di carbossiemoglobina, la sostanza emessa dalla combustione che, se arriva ad alti livelli, può produrre svenimenti e perdita di coscienza: Marisa Maldera quella notte del febbraio del 2003 aveva una percentuale nel sangue vicina al 35%.
Se fosse riuscita ad uscire dall’auto si sarebbe salvata quasi certamente: ossigeno ad alti flussi e il ricovero d’urgenza in ospedale e poi in camera iperbarica l’avrebbero rimessa in sesto.
Ma nel metabolismo della moglie di Giuseppe Piccolomo deceduta orribilmente perché intrappolata nella Volvo Polar in fiamme in mezzo al prato di Caravate, c’era anche dell’altro.
La tossicologa forense dell’università di Pavia Cristiana Stramesi nei campioni prelevati dal cadavere e conservati per anni a -20 gradi ha trovato anche tracce di Lorazepam, il principio attivo di tranquillanti come Tavor o Control, medicinali per curare stati d’ansia o insonnia: poche gocce prese ogni giorno assicurano livelli terapeutici nel sangue ma anche nei tessuti (ma Marisa non l’assumeva).
Lo stesso quantitativo preso una tantum, invece, provoca egualmente livelli elevati di torpore, in grado di «influire sul sistema nervoso centrale», anche se le tracce nel metabolismo risultano più tenui. Tradotto: intontimento, confusione e quella sensazione che ladri e rapinatori col pallino della chimica conoscono bene quando devono derubare qualcuno somministrando la sostanza in bevande comuni. Anche nel caffè, che non influisce come antagonista, tanto che spesso nelle case di riposo si utilizza proprio la classica tazza di caffè per somministrare il potente tranquillante.
Giuseppe Piccolomo, mentre la professionista parlava, non ha fatto neppure una piega. Anzi sembrava a suo agio nella gabbia, tanto da slacciarsi la felpa per mostrare una t-shirt con stampato il volto della moglie e dei due figli.
Lo stesso clima che si è respirato quando l’altro consulente dell’accusa, l’ingegner Domenico Romaniello ha tratteggiato i diversi scenari legati alla traiettoria che l’auto avrebbe fatto per andarsi a trovare in mezzo al prato che costeggia la Provinciale.
Qui le ipotesi sono due: o l’auto nel prato ci è arrivata da un viottolo appena tracciato per consentire il passaggio ai mezzi agricoli che 15 anni fa arrivavano nel campo per lavorare la terra (ma non nella stagione dell’incidente, era febbraio); oppure la Volvo in mezzo al campo c’è arrivata come sostiene l’uomo alla guida dell’auto quella gelida notte (-4,5 gradi), cioè uscendo di strada e cappottandosi, causando lo spargimento di benzina custodita in una tanica posta dietro al sedile anteriore del passeggero e responsabile dell’incendio.
Ipotesi possibile, in almeno due scenari legati alla velocità e al conseguente tragitto compiuto dal mezzo, ma del tutto incongruente con le condizioni della carrozzeria: l’auto sulla quale in coniugi viaggiavano non presentava segni di schiacciamento soprattutto nei montanti anteriori, segni che il peso del veicolo lascerebbe a seguito di più carambole su di un terreno che presenta forte attrito.
C’è poi da capire cosa sia successo alle portiere dell’auto: il mezzo, dopo che le fiamme vennero domate, fu trovato con tre portiere aperte (lato guida e le due posteriori) mentre quella lato passeggero dove trovava posto la povera Marisa risultava “come inchiodata”. Non necessariamente quella portiera era stata chiusa: i rilievi tecnici sul veicolo hanno difatti dimostrato che quand’anche la portiera fosse stata aperta al momento dell’incendio, nel giro di una trentina di secondi gli alti gradi sviluppati dalle fiamme sono in grado – su quel modello – di fondere la molla del nottolino della portiera così da trasformare l’abitacolo in una palla di fuoco che non dà scampo.
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