Filetti (Cgil): “Non chiamatelo lavoro povero, è lavoro sottopagato”
Stefania Filetti, segretaria della Cgil di Varese, spiega perché il referendum dell’8 e 9 giugno può cambiare il destino di milioni di lavoratori: "La dignità passa da tutele vere, sicurezza e cittadinanza piena. Basta paghe da fame e precarietà senza regole"

«Non chiamiamolo lavoro povero, ma sottopagato: questo è il vero problema. Chiamarlo “lavoro povero” rischia di far pensare che la colpa sia di chi svolge lavori meno qualificati. Invece il problema è chiaro: sono paghe inadeguate rispetto al valore del lavoro». A parlare è Stefania Filetti, segretaria della Cgil di Varese. La numero uno della Camera del Lavoro di via Nino Bixio è perfettamente in linea con la riflessione fatta dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel corso della cerimonia per la Festa del Lavoro.
Temi, quello dei salari inadeguati e della precarietà, che rientrano nei cinque quesiti referendari voluti dalla Cgil, per i quali ha raccolto cinque milioni di firme e superato il vaglio della Corte Costituzionale. I cittadini italiani, l’8 e il 9 giugno prossimi, dovranno esprimere il loro voto su: licenziamenti illegittimi, più sicurezza sul lavoro, riduzione del lavoro precario (contratto a termine), più tutele per le lavoratrici e i lavoratori delle piccole imprese e più integrazione con la cittadinanza italiana.
Filetti, perché in Italia il lavoro è sottopagato?
«Il lavoro sottopagato si lega all’organizzazione del lavoro: part-time ridotti a 10-12 ore settimanali impediscono al lavoratore di mantenersi, che è costretto a fare più lavori spesso in condizioni inaccettabili. Le imprese, riducendo l’orario, risparmiano su diritti come le pause, la mensa e altri costi considerati “accessori”, ma fondamentali per la dignità delle persone. Fare impresa basandosi solo sui tagli dei costi esaspera la tenuta del sistema, con effetti pericolosi».
Quali sono questi effetti?
«Primo fra tutti la sicurezza sul lavoro. Delegare attività in appalto serve a ridurre costi e scaricare responsabilità. Uno dei quesiti referendari riguarda proprio la responsabilità dell’azienda committente in caso di infortuni gravi. È una battaglia di civiltà che questo referendum sta facendo».
Il referendum ha un quesito sui licenziamenti illegittimi. Si riapre il dibattito sull’abolizione dell’articolo 18 e le modifiche introdotte dal Jobs Act voluto dal Governo Renzi?
«È un quesito importantissimo. Dopo l’abolizione dell’articolo 18 con il Jobs Act, si è visto che la promessa di una maggiore attrattività per le imprese era infondata. L’articolo 18 non era un ostacolo, anzi, per le aziende serie era ed è un valore. Chi voleva licenziare senza motivo ha approfittato dell’assenza di tutele. Il Jobs Act ha creato un doppio regime giuridico, dichiarato incostituzionale. È stata una discriminazione. Non ha aiutato le imprese, ma ha solo reso i lavoratori più ricattabili. Oggi serve dire con onestà che quella riforma è stata un errore».
Sulla precarietà del lavoro e le dinamiche dell’utilizzo del contratto a termine ci sarebbe da discutere molto, soprattutto rispetto alle causali. Qual è il punto debole di questa normativa?
«Negli anni, si è smantellato il principio delle causali. Il contratto a termine, nato negli anni ‘60, ha subìto modifiche continue che hanno alimentato la precarietà. Senza una causale seria, si precarizza il lavoro in modo selvaggio. Non è solo colpa di un governo. È una responsabilità politica che si trascina da decenni».
Perché un quesito sulla cittadinanza?
«Lavoro dignitoso, cittadinanza, sicurezza, diritti sono temi interdipendenti. Lavorare con pari diritti è un elemento fondante dell’essere cittadini. Ottenere la cittadinanza permette di partecipare pienamente alla vita del Paese, non solo di lavorare. È un riconoscimento che dà futuro e serve a un Paese come il nostro, che ha bisogno di nuove energie ed è in pieno inverno demografico. Il lavoro deve tornare al centro della democrazia e della civiltà del nostro Paese. Se vinceremo, quorum permettendo, sarà una grande svolta per l’Italia».
La Cgil è giunta in dirittura d’arrivo e tra poche settimane ci sarà la consultazione referendaria. Che tipo di percorso è stato?
«Un percorso straordinario per il lavoro fatto e per il grado di consapevolezza raggiunto su questi temi. Abbiamo fatto assemblee nei luoghi di lavoro e costituito comitati elettorali provinciali, iniziative con associazioni e partiti con l’obiettivo di spiegare bene cosa cambierebbe il giorno dopo la vittoria dei sì. Faccio parte, con onore, dell’Assemblea generale nazionale della Cgil. Abbiamo lavorato per mesi con la nostra consulta giuridica, composta da avvocati, giuristi e costituzionalisti che collaborano con noi. Da questo intenso confronto erano emersi ben 12 quesiti referendari, tutti validi e centrati nel merito. La scelta finale di puntare su cinque quesiti è stata ponderata: abbiamo scelto quelli che, se vincesse il sì, avrebbero beneficiato il maggior numero possibile di persone. L’Assemblea si è espressa all’unanimità. È stata dunque una scelta inclusiva e consapevole, che riguarda tutti i cittadini».
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A Materia si parlerà dei referendum indetti dalla Cgil in due appuntamenti:
Lunedì 5 maggio dalle 13 alle 15 “Referendum e informazione: a Materia un confronto con i giornalisti”
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