Omicidio Lidia Macchi, «Stefano Binda esca dal carcere»
I difensori Esposito e Martelli presentano l’istanza: “Non può inquinare le prove”. Attesa la fissazione ella data per l’appello
Gli avvocati che difendono Stefano Binda dall’accusa di omicidio volontario di Lidia Macchi per il quale l’uomo è in carcere dal 15 gennaio 2016 – tre anni – hanno oggi, 12 marzo presentato istanza di scarcerazione alla Corte d’Assise d’Appello di Milano.
Patriza Esposito e Sergio Martelli chiedono «che la misura cautelare in essere venga revocata o modificata con altra meno afflittiva» come gli arresti domiciliari o, ancora meglio, l’obbligo di firma dinanzi alla polizia giudiziaria.
Stefano Binda, che il prossimo 12 agosto compirà 52 anni, è attualmente detenuto a Busto Arsizio in forza dell’ordinanza di applicazione della misura cautelare in carcere disposta del GIP di Varese ed è in attesa di fissazione del giudizio di appello contro la sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise di Varese il 23 aprile 2018.
Per i legali di Binda è evidente che «allo stato non sussista più alcuna situazione di pericolo concreto ed attuale per l’acquisizione ovvero per la genuinità della prova». Questo perché «l’istruttoria dibattimentale lunga e molto articolata con l’audizione di numerosissimi testimoni, le consulenze, l’incidente probatorio protrattosi per quasi due anni hanno di fatto cristallizzato una situazione che non pare possa essere più oggetto di modifica a seguito di intervento dell’imputato», scrivono i legali.
Verrebbe meno, poi, anche la seconda “esigenza cautelare”, il pericolo di fuga: Binda sapeva già dal 2015, per aver ricevuto l’avviso di garanzia, che si stava indagando sul suo conto per omicidio: «Agli atti – scrivono gli avvocati non vi è alcun elemento che possa far ritenere esistente il concreto e attuale pericolo di fuga nonostante il prevenuto avesse avuto notizia dell’iscrizione del suo nome nel registro degli indagati sin dall’agosto 2015».
Per Sergio Martelli e Patrizia Esposito, poi, non sussisterebbe neppure il pericolo che Binda possa reiterare il reato: non è “socialmente pericoloso”. Questo poiché «sono trascorsi tre anni dall’arresto di Stefano Binda e durante tutto questo periodo lo stesso ha dato prova di assoluta correttezza e rispetto delle istituzioni adeguandosi al regime carcerario e cercando di rendersi utile ai compagni meno fortunati ad esempio facendo da interprete per quelli che non parlano italiano.
Non vi è agli atti alcun elemento che possa far considerare come concreto ed attuale il pericolo di reiterazione di un reato della stessa indole o comunque con violenza alla persona».
Per scrupolo difensivo gli istanti ritengono di sottoporre all’esame della corte anche «l’ipotesi di una modifica della misura in essere con altra meno afflittiva», concludono gli avvocati.
«Quale estrema ratio gli arresti domiciliari, anche se la mancanza degli elementi sopra richiamati li renderebbero ingiustificati e pertanto estremamente punitivi.
Si rimette alla Corte laddove lo ritenga assolutamente indispensabile, l’applicazione di altra misura utile a gestire un controllo sull’imputato come ad esempio l’obbligo di firma».
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