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Sarà gratuita la certificazione di malattia per i lavoratori frontalieri

Fuggono dall'Italia per poter lavorare e quando decidono di ritornare, allettati dalle promesse, vengono fatti accomodare in sala d'attesa. Sono 1700, infatti, i ricercatori italiani che dopo aver vinto un concorso attendono dallo Stato una risposta circa il loro futuro. Claudia Binda, trentenne, varesina, biologa e ricercatrice, si definisce "fortunata" perché il suo nome non compare in quella lunga lista e perché lavora ormai da anni ad un progetto importante in un laboratorio di ricerca di biologia a Pavia. Claudia studia la struttura delle proteine che interagiscono in alcune malattie, tra cui il morbo di Parkinson. Fa la spola con Atlanta, in Georgia, negli States, dove il laboratorio di un'università cura una parte di quel progetto. Perché lei non è fuggita all'estero? «Fin dalla tesi di laurea ho potuto scegliere un laboratorio di ricerca molto competitivo in Italia, paragonabile ai migliori laboratori stranieri. Il responsabile ha lavorato molto all'estero e ha ricreato un ambiente internazionale: collaborazioni e progetti validi, per cui i finanziamenti arrivano e questo permette di fare ricerca seriamente. Poi c'è un patto trasparente con il nostro capo che crede nei giovani ricercatori, non li sfrutta e mette subito in chiaro lati positivi e negativi della scelta». Perché ha scelto Pavia e non Varese per i suoi studi di biologia? «Quando ho iniziato io, la facoltà di biologia qui a Varese era appena nata, ma non è la sola ragione. Se uno ha le possibilità è meglio che vada a studiare in un'altra città da quella dove risiede, magari in quella dove c'è la miglior tradizione rispetto alla facoltà scelta. Vivere e studiare lontano da casa è un'esperienza importante, che aiuta ad aprire la mente, a formarsi e a responsabilizzarsi. All'estero uscire di casa a vent'anni è una regola sancita e accettata dalle stesse famiglie. Ho scelto Pavia perché ha una tradizione scientifica forte e consolidata, ha strutture e laboratori adeguati e perché lì arrivano molti personaggi importanti per il mondo scientifico. Non è possibile fare ricerca senza uno scambio continuo con gli altri ricercatori nel mondo. Insomma, era il luogo ideale per ciò che volevo fare». Che progetti di ricerca seguite nel vostro laboratorio? «Oltre a quello su alcune proteine che interagiscono nel morbo di Parkinson, c'è un progetto di livello europeo sulla tubercolosi. Riguarda la ricerca di nuovi target che possano far scoprire nuovi antibiotici, dato che questa malattia, con i recenti flussi migratori, è ritornata in auge anche in Europa». L'America per un ricercatore rimane sempre il modello da seguire? «Sì, anche per quei ricercatori che, per un motivo o per l'altro, non l'amano. È la meta agognata, nonostante nei loro centri di ricerca ci sia molto stress e competizione. Bisogna stare attenti però a non cedere il passo ad alcuni luoghi comuni, un po' come accade per la famiglia americana, sempre in crisi e sull'orlo del divorzio». Qual è, allora, la realtà americana? «Nei laboratori americani c'è molto attivismo e si fanno delle ricerche per un motivo che va sempre giustificato. Quindi i finanziamenti ti vengono dati se tu giustifichi la tua ricerca e se dà dei frutti. Giustificare non vuol dire avere necessariamente un ritorno immediato, come puo' essere per un prodotto commerciale. La ricerca di base è un investimento a lungo termine. Le altre ricerche che non hanno una giustificazione biomedica o biotecnologia, seppur interessanti, non vengono finanziate. In questo l'America è un modello». In alcuni settori, come l'informatica e la matematica applicata, c'è una forte concorrenza degli indiani e degli orientali in genere. Accade anche nel suo campo? «Quando ho lavorato negli Stati Uniti, l'unico americano era il professore tutti gli altri erano stranieri, soprattutto giapponesi e cinesi, che resistono, in quanto abituati, a fortissimi carichi di lavoro e di stress». E in Italia cosa accade? «In Italia ci sono autentiche punte di eccellenza nella ricerca scientifica, però manca la classe media dei ricercatori». Il motivo? «Da noi è un po' il gatto che si morde la coda: purtroppo è vero che vengono dati pochi soldi alla ricerca, ma è anche vero che sono tanti i posti dove si batte la fiacca. I posti per i ricercatori non sempre sono gestiti in base a meriti scientifici, spesso dipende dall'avere un proprio "sponsor". C'è un rapporto sproporzionato tra la classe docente e quella dei ricercatori, perché negli anni Sessanta sono stati assunti moltissimi professori e pochissimi ricercatori. Ora si cerca di risolvere il problema bloccando le assunzioni in campo pubblico, penalizzando però le nuove leve e con un conseguente invecchiamento delle università. Il professore ha un ruolo, mentre il ricercatore ne ha un altro, il professore deve fare un sacco di cose e non si puo' occupare della ricerca. Il fatto che oggi tutti i ricercatori rientrati in Italia non lavorano è un grave danno per il Paese». Quanto influisce il fatto che l'Italia abbia una forte tradizione accademica umanistica? «Non credo che la questione centrale sia la competizione interna tra facoltà scientifiche e umanistiche. Penso invece che il decentramento, causato dalla nascita in tante piccole città di nuove università, abbia frammentato ulteriormente le poche risorse disponibili». Secondo lei, le strutture italiane sono adeguate? «Noi collaboriamo con ricercatori europei, francesi e olandesi soprattutto, e spesso andiamo all'estero per raccogliere dei dati. Ci rechiamo nei sincrotroni, strutture sofisticate, dove il ricercatore ha a disposizione tutta la strumentazione necessaria, una sorta di incubatore di ricerca che dà servizi alle università. Il nostro sincrotrone di Trieste aveva tutte le caratteristiche per essere competitivo con quelli europei, ma come accade per altre cose italiane aveva problemi di organizzazione e problemi tecnici che, ad esempio, non ci sono a Grenoble o ad Amburgo. Il ricercatore che va lì ha tempi intensissimi e deve essere messo in grado di lavorare nel migliore dei modi». Che tipo di rapporto avete con le aziende private? «L'industria farmaceutica cerca il prodotto immediato, loro fanno ricerca perché vogliono il farmaco, però hanno bisogno della ricerca di base che solo le università fanno perché non hanno un fine immediato, e perché hanno più conoscenze rispetto a specifici argomenti. Ci sono ricercatori delle industrie farmaceutiche a cui cambiano il progetto da un giorno all'altro, perché l'industria ha deciso di cambiare linea rispetto al prodotto. Le proteine che studiamo noi hanno a che fare direttamente con alcune malattie. Le industrie farmaceutiche, che hanno interesse a sviluppare nuovi farmaci contro queste malattie, ci forniscono i loro composti che noi studiamo in relazione a queste proteine. In questo modo loro possono modificare chimicamente questi composti, rendendoli più efficaci e con meno effetti collaterali. Noi gli forniamo le informazioni e le aziende sviluppano i nuovi composti. È un continuo scambio di informazioni». Michele Mancino La denuncia di Cisl, Inas, Ocst ha determinato una presa di posizione da parte del Pirellone

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