Simone, da Lonate Ceppino all’Irlanda per “salvare internet”

Simone Iadanza è un ingegnere fisico impegnato in una ricerca sui cristalli fototonici, che mira ad abbattere i consumi energetici degli scambi di dati. Ha vinto FameLab, concorso che premia le capacità comunicative

Simone Iadanza

Simone Iadanza è quello che si definisce “un cervello in fuga”. In verià, però, Simone si trova in Irlanda per partecipare al  progetto di ricerca che più lo ha interessato tra quelli esistenti al momento della sua laurea. Con in tasca un prestigioso titolo accademico in ingegneria fisica e una specializzazione in nanotecnologie, ora si trova all’Università di Cork per studiare le particelle infinitamente piccole e le loro potenzialità per rendere internet più veloce e meno costoso. Un risultato che può cambiare la nostra vita quotidiana….

La notizia della sua carriera post universitaria è rimbalzata in Italia grazie a un concorso vinto: l’edizione regionale del “FameLabuna competizione che ti costringere a parlare a una grande platea di un argomento scientifico senza supporti o slides, solo con le parole. Simone si è aggiudicato l’accesso alle finali nazionali grazie al suo “speech” dedicato ai “cristalli fototonici”, argomento ostico ai più.  Una dote naturale la sua: la chiarezza, unita a una curiosità infinita per una materia che ha ancora tantissimo da svelare, la fisica.

Tutto ebbe inizio a Lonate Ceppino.

Come sei diventato “un cervello al servizio della fisica”?
Prima scuole elementari e medie di Lonate Ceppino poi, essendo molto interessato alla scienza, decisi di iscrivermi al corso Scientifico PNI (piano nazionale informatico) del Liceo Marie Curie di Tradate. Già all’epoca avevo le idee più o meno chiare sul mio futuro universitario e la scelta era effettivamente tra i vari corsi di Fisica ad Unimi e Bicocca e quello di Ingegneria Fisica al Politecnico di Milano. Dopo aver partecipato a vari open day dei vari corsi, e valutando I vari piani di studi, mi iscrissi al PoliMI. Ottenni quindi la laurea Triennale in Ingegneria Fisica e poi decisi di specializzarmi in nanotecnologie ottenendo la laurea magistrale in Materials Engineering and Nanotechnology (corso interamente in inglese, sempre al PoliMI, valore aggiunto per eventuali opportunitá all’estero)

Quando è nata la passione per la fisica?
Non saprei veramente definire un quando. I miei genitori raccontano sempre di quanto fossi insistente fin da piccolo con domande, sempre nei momenti meno opportuni, legate all’Universo e ai fenomeni naturali. Ricordo della mia infanzia un bisogno impellente di smontare ogni cosa per osservarne i componenti e cercare di caprine il funzionamento. Oggi potrebbe essere chiamato Reverse Engineering, (o la mia condizione: disturbo ossessivo) ……
Fatto sta che fin da quando ho imparato a leggere, prima in biblioteca poi tramite internet, ero sempre a consultare qualche strano libro o articolo sui Buchi Neri, o sulla formazione dei fulmini. Poi, crescendo e studiando, mi sono interessato sempre di più all’infinitamente piccolo, alle nanotechnologie e alla meccanica quantistica per descriverne I comportamenti. Tuttavia, più approfondivo i miei studi più, mi accorgevo di quanto vi fosse di sconosciuto rispetto alle mie conoscenze. E questo alimentava, ed alimenta ancora oggi, il bisogno di conoscere.

La tua carriera post laurea
Una volta finito il mio lavoro di tesi magistrale in laboratorio, durante l’estenuante e lungo processo di scrittura della stessa, cominciai a consultare le sezioni riguardanti vari gruppi di ricerca sui siti di vari atenei in giro per l’Europa. Trovai alcuni progetti in campi per me molto interessati e decisi di contattare i professori corrispondenti, nel caso avessero posizioni di ricerca aperte. Tra le risposte affermative, scelsi il progetto che mi sembrava più interessante dal punto di vista di argomento (nel campo della fotonica e dell’optoelettronica) e aspetto sperimentale e presentai domanda. Così sono entrato in contatto con il Dr. Liam O’Faolain, l’allora leader del Gruppo di Nanofotonica all’Università di St. Andrews (UK), ora supervisore del mio dottorato a Cork. Dopo vari colloqui via Skype con lui per valutare le mie conoscenze (e poi con l’allora presidente della facoltà di Fisica qui al Cork Institute of Technology), venni selezionato per la posizione di dottorato con una borsa di studio coperta dall’ERC (European Research Council) per quel determinato progetto. Entrai quindi a far parte del suo Gruppo di Nanofotonica che intanto dalla Scozia si stava spostando a Cork, Irlanda, per la possibilità di lavorare nelle Clean-Room del Tyndall National Institute.

Come ti trovi a Cork?
Per ora molto bene. La città, nonostante sia la seconda più popolosa d’Irlanda, é comunque molto vivibile ed i suoi abitanti accoglienti. É anche molto internazionale e per strada capita quotidianamente di sentire l’inglese mischiarsi ad un’infinità di altre lingue, tra cui lo spagnolo, francese, polacco, russo, giapponese… Ed anche l’italiano, ovviamente.
Per quanto riguarda la fisica, le scienze in generale, il governo irlandese sta investendo molto nella ricerca e di conseguenza la città è ricca di opportunità per quanto riguarda progetti e collaborazioni tra universitá, enti ed industria. Questo attira molte persone dai più disparati posti della Terra, che portano le loro tradizioni e la voglia di aprirsi alle altre, arricchendo così la città di cultura e sfumature sociali, stimolando sempre la curiosità.
Inoltre, dopo quasi 2 anni qui, finalmente mi sono abituato alle diverse ore di luce. A parte il clima. Qui riesce ad essere anche più piovoso del Varesotto, cosa che non credevo possibile in passato…

Parlaci brevemente delle potenzialità della tua attuale ricerca.
Con l’avvento di Internet, il mondo si é aperto alla condivisione della conoscenza, allo scambio e conservazione di una quantità inimmaginabile di dati per una altrettanto enorme gamma di applicazioni.
Pensiamo solo a quanti dispositivi abbiamo interconnessi ogni giorno. Smartphones, computer, ma anche sensori di ogni tipo: per l’aviazione, per la medicina, per l’ambiente. Ed ancora satelliti, mezzi di trasporto, impianti di produzione. E la quantità di dati generati e scambiati aumenta di secondo in secondo, ed in modo impressionante. Infatti abbiamo prodotto più dati negli ultimi 2 anni che nel resto della storia umana.
Per gestire questa valanga sempre crescente di informazioni, la potenza di calcolo mondiale dei computer deve aumentare esponenzialmente ogni anno, e sono richieste connessioni sempre più veloci per la trasmissione dei dati. Questo porta ad un incredibile consumo di energia per il funzionamento ed il raffreddamento dei server nei datacenters (grandi magazzini ricolmi di computer che gestiscono il traffico cibernetico). Oggi il 2% dell’energia prodotta a livello mondiale é utilizzata per questi datacenters e se l’andamento di crescita rimane invariato, in 5 anni da oggi tutta l’elettricità prodotta nel mondo non sarà sufficiente per continuare a lavorare con internet.
Di tutta questa energia elettrica, a differenza di quello che si pensi, la maggior parte non é utilizzata dai transistori nei computer per le operazioni, bensì fino all’80% viene consumata dalle connessioni elettriche tra i processori per muovere i dati da una parte all’altra dei microchip.
La mia ricerca attuale si occupa di sviluppare dei dispositivi per sostituire queste connessioni elettriche sui microchip di ogni computer con delle connessioni ottiche, utilizzando la luce per trasmettere i dati tra i vari transistori. Queste nuove connessioni hanno consumi energetici fino a 1000 volte inferiori e possono arrivare ad essere 1000 volte più veloci. Tuttavia occorre intrappolare la luce in spazi molto piccoli (centinaia di nanometri) e ai tempi giusti, per poterle integrare sugli attuali microchip. Per fare ciò ci ispiriamo alla natura, costruendo cristalli fotonici: materiali costituiti da piccolissime strutture che si ripetono periodicamente nello spazio, simili a quelle che ricoprono le ali di alcune farfalle o la pelle dei camaleonti, che interagiscono con la luce generando modelli di interferenza tali da riuscire a confinarla in spazi molto ridotti. Recentemente abbiamo ideato e fabbricato queste strutture, che ora sono in fase sperimentale ed i risultati sembrano promettenti. Il prossimo passo sarà la loro integrazione sul microchip elettronico e la sperimentazione del dispositivo completo. E magari chissà, salveremo “l’Internet”

Perché hai partecipato a questa competizione?
Prima di tutto perché per me sembrava una sfida eccellente. Spiegare il proprio progetto di ricerca in modo accurato a non esperti, senza l’aiuto di immagini o slides, ed in un tempo incredibilmente ristretto (3 minuti) si é rivelato molto più arduo di quello che pensavo prima di iniziare a provarci effettivamente.
Questa, quindi, era una ottima scusa per prendere coraggio e fare pratica con delle abilità espressive che spesso per i ricercatori sono un po’ secondarie, a causa dell’ingente attenzione che i vari rompicapo scientifici ci richiede quotidianamente.
Inoltre sembrava molto divertente, quindi mi sono buttato. È stata una decisione estemporanea. La mia preoccupazione principale all’inizio era quella di non far sfigurare il gruppo di ricerca in cui lavoro, ma alla fine é andata meglio di quanto previsto.

Ciò che studi può davvero rivoluzionare la vita odierna. Far capire al grande pubblico il valore della propria ricerca è un dovere di ogni ricercatore?
Credo assolutamente che la comunicazione chiara della propria ricerca a tutti sia un dovere civile e morale del ricercatore.
Civile in quanto, spesso, essa é finanziata da fondi pubblici, quindi da tutti noi e come tale abbiamo il dovere di far capire al pubblico come e perché stiamo utilizzando questi soldi e soprattutto il perché sia necessario farlo. Che alla fine va sempre a vantaggio di tutti, poiché una volta chiari i benefici che la ricerca porta nella nostra vita quotidiana ed i problemi pubblici che risolve, verrà naturale investire sempre più in essa.
Morale in quanto abbiamo il dovere di far capire al mondo che non esistono soltanto i problemi ma anche il modo di risolverli tramite la scienza e la tecnologia. In modo da instaurare nei popoli la speranza e la consapevolezza del fatto che tramite la ricerca scientifica possiamo effettivamente migliorare le nostre condizioni di vita e rivoluzionare il nostro futuro.
Naturalmente é sempre difficile uscire dalla propria zona di comfort ed andare a comunicare la propria ricerca al grande pubblico, e per farlo occorre utilizzare delle abilità comunicative che noi scienziati, spesso, non alleniamo a livello ideale.
Tuttavia sto notando sempre più, da parte della comunità scientifica, la voglia di far sentire la propria voce. Eventi come FameLab stanno diventando sempre più numerosi e la partecipazione é in crescita.
Ovviamente c’é sempre da migliorare, ma il coinvolgimento comunicativo della comunità scientifica é positiva ed in crescita.

Cosa ti ha insegnato e ti sta insegnando questa competizione FameLab?
Ho visto in questa competizione una possibilità di crescita personale, imparando a sfruttare alcune capacità che tutti abbiamo ma che noi scienziati tendiamo magari a trascurare poiché non direttamente legate alla risoluzione dei nostri quesiti scientifici.
Questa opportunità mi ha anche permesso di osservare il mio progetto da più lontano, cosa rara quando si é immersi in modelli matematici e cascate di dati sperimentali, ed il doverne estrapolare i concetti fondamentali in modo semplice e diretto é un esercizio che mi ha aiutato a comprendere meglio in che direzione sta andando la mia ricerca, come capita sempre osservando da nuove prospettive.
Mi ha inoltre insegnato a cogliere in maniera sintetica e diretta quelli che sono i punti salienti della tecnologia (e della fisica alle spalle) che stiamo sviluppando, in modo da poterla confrontare con le altre soluzioni nel campo e aprire le importanti e costruttive discussioni scientifiche alla base di ogni avanzamento tecnologico.
Questo processo di estrapolazione e sintesi dei concetti e la loro esposizione in maniera chiara a tutti é alla base della comunicazione, scientifica e non, ed é quindi fondamentale per aiutare tutti a crescere in vista delle decisioni che si è chiamati a prendere.

Alessandra Toni
alessandra.toni@varesenews.it

Sono una redattrice anziana, protagonista della grande crescita di questa testata. La nostra forza sono i lettori a cui chiediamo un patto di alleanza per continuare a crescere insieme.

Pubblicato il 19 Febbraio 2018
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