«Siamo scappati dalla guerra, ora qualcuno ci aiuti»

Ventenni con la morte stampata in faccia e che hanno perso tutto: sono i richiedenti asilo, ospitati in città all'hotel Plaza. "Non lavoriamo e siamo senza soldi: cosa sarà di noi?"

Aliou ha visto i soldati che uccidevano sua mamma: nei suoi occhi di ventenne la tristezza e la paura fanno capolino ad ogni sguardo. Tony di anni ne ha 24 e dopo quattro giorni di mare è arrivato sulle coste di Lampedusa, ma sua moglie ha perso il bambino che aveva in grembo: da due mesi non sa nulla di lei, ricoverata in ospedale a Palermo. Patrick ha 40 anni e quattro figli, lontanissimi, in Togo con la moglie e l’anziana madre. Jérémy ha 24 anni e quando si è trovato davanti alla scelta di imbracciare un’arma o partire, ha preso la via del mare. Sono solo alcuni dei quarantatrè profughi che hanno dovuto lasciare in fretta e furia la Libia dopo la guerra esplosa tra le fazioni legate a Gheddafi e i ribelli: sono ospitati all’hotel Plaza, in via Sanvito a Varese, a pochi passi dal centro della città giardino. Vivono ospitati nella struttura grazie ad un accordo siglato tra la proprietà dell’albergo e la Prefettura: hanno vitto e alloggio, ma per il resto non possono praticamente fare nulla. Passano le giornate a guardare la televisione, a navigare su internet, chi può chiama a casa, qualcun altro va a pregare in moschea. Li accudisce e li sgrida la signora Silvia, per tutti semplicemente “Mama”, affiancata da un docilissimo pitbull femmina che si aggira per la hall dell’albergo, tra le gambe di questi ragazzoni sbalzati in una realtà che non è la loro e che nemmeno si sono cercati.
 
Vengono dal Ghana, dalla Costa d’Avorio, dal Burkina Faso, dal Gabon, dal Mali, dal Niger, dalla Nigeria. In Libia lavoravano tutti: chi faceva il manovale, chi l’autista, chi l’inserviente. Hanno lasciato i propri Paesi d’origine per i più svariati motivi e sono stati costretti ad abbandonare anche Tripoli, sbattuti su una nave e arrivati in Italia senza sapere come e perché. Quasi nessuno vuole rimanere nel nostro Paese: preferiscono la Francia, la Germania, il Nord Europa. Vorrebbero poter lavorare, ma la legislazione non consente loro di avere un impiego fino a quando non verrà espletata la pratica di richiesta di asilo politico o riconosciuto lo status di rifugiato. Non hanno soldi, qualcuno si infila un auricolare nelle orecchie, difeso con le unghie dalle onde del mare e dai mille spostamenti da Lampedusa a Manduria, da Bari a Como, da Milano a Varese. Con il personale dell’albergo in questi due mesi di permanenza al Plaza si è instaurato un rapporto di condivisione e tolleranza reciproca: qualche testa calda c’è, ma nel complesso i problemi sono ridotti al minimo. Qualche cliente è "fuggito" vedendo la hall "invasa" da questi ragazzi, ma nel complesso anche il rapporto con il resto degli ospiti del Plaza è buono. Avrebbero bisogno di vestiti, sapone, scarpe: generi di prima necessità che servono per le esigenze di ogni giorno. Qualcosa è stato loro fornito da alcune associazioni, altre le ha recuperate Thierry Dieng, da sempre anima delle associazioni vicine ai migranti, che anche questa volta si è impegnato a titolo personale, facendo da “mediatore culturale” e da tramite tra i profughi del Plaza e le istituzioni. Il loro desiderio principale è quello di sapere cosa sarà del loro futuro, avere più informazioni, più possibilità di capire cosa fare e come farlo.
 
Il rapporto con Varese e con i varesini è ad un livello embrionale: chiunque sia passato da via Sanvito in questi due mesi non può non averli notati, ma i contatti diretti sono pochi e sporadici. Qualcuno esce per andare a fare un giro in centro, altri prendono la strada della moschea di via Giusti per la preghiera rituale del venerdì. Chi osserva il Ramadan di giorno non mangia, ma si prepara la colazione dopo il tramonto, risistemando la cucina e la sala da pranzo. Tanti altri aspettano di poter riabbracciare la propria famiglia, in una sorta di limbo senza apparente via d’uscita.

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Pubblicato il 05 Agosto 2011
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